Oriente e Occidente

Oriente e Occidente

Si può ancora parlare oggi di Oriente e Occidente, in tempi in cui va progressivamente scomparendo ogni distinzione qualitativa, in cui regna ovunque la tendenza all’uniformazione e all’appiattimento e anche le nozioni di “geografia sacra” divengono sempre più inintelligibili?

Sicuramente i principi spirituali simboleggiati dall’Oriente e dall’Occidente geografici non verranno mai meno, e soprattutto non verrà mai meno quel Principio comune dal quale tutti gli aspetti della Tradizione derivano.

Una delle cause che hanno contribuito a far perdere la trasparenza alle nozioni di Oriente e di Occidente va sicuramente individuata nel dilagare di tutta una pseudo-spiritualità travestita da orientale, ma in realtà di origine puramente occidentale, che ha finito per infiltrarsi presso gli stessi orientali dando così origine a una situazione estremamente complessa in cui è divenuto difficile distinguere il vero dal falso, così inestricabilmente confusi, non solo in Occidente ma persino in Oriente. L’unica possibilità resta quella di rifarsi strettamente alla dottrina metafisica, la sola che possa dare la misura reale dell’ortodossia non solo del vero Oriente, ma di ogni forma tradizionale, così come del suo stato attuale di vitalità.

Il vero Oriente è infatti metafisico e i veri orientali sono coloro che vivono nella maniera più trasparente conformemente alle verità metafisiche, laddove in Occidente, anche in tempi (rimanendo nei periodi storici investigabili normalmente) in cui regnava uno spirito autenticamente tradizionale, la metafisica pura si presentava sempre rivestita di alcuni veli, e gli occidentali, a causa della loro costituzione sentimentale, hanno sempre avuto una certa difficoltà a concepire le realtà di ordine realmente trascendente.

L'Oriente e l'Occidente, per come ci interessa intenderli dal nostro punto di vista, sono innanzitutto delle "coordinate metafisiche" prima che geografiche: certo la Verità è al di sopra di ogni distinzione, tanto più geografica, e come dice, ad esempio, la rivelazione coranica: "Ad Allah appartengono l'Oriente e l'Occidente". Tuttavia, seppur in sé la Tradizione primordiale non né orientale né occidentale, almeno dal periodo cosiddetto storico essa si è resa più esplicita e maggiormente accessibile in Oriente, l'Oriente da cui nasce il sole.

Una delle caratteristiche che maggiormente distinguono l’Oriente dall’Occidente è l’attitudine alla contemplazione. Ma a questo proposito non ci si può appoggiare troppo su luoghi comuni che vedono una grossolana contrapposizione fra contemplazione e azione. Occorre chiarire che cosa sia realmente la contemplazione e cosa l’azione.

Secondo la dottrina di tutte le tradizioni l’essenza dell’essere umano non va ricercata in quello che egli fa, ma in quello che egli è; e questo essere reale non si identifica neppure con l’aspetto psicologico della natura umana, ma è qualcosa di molto più essenziale, anche se la maggior parte degli uomini non ne è consapevole perché appunto distratta da tutti questi veli esteriori. A differenza dell’occidentale, l’orientale non ha timore di riconoscere la presenza divina in sé, e non si identifica con tutti quegli aspetti accidentali che rivestono questa presenza in lui; anzi si sforza di concentrarsi sull’essenziale e di limitare al massimo ogni azione che possa distrarlo da questa concentrazione sull’unica vera Realtà, l’Unico Testimone di ogni realtà.

E questa dottrina del Testimone divino, che ha un ruolo così importante nella tradizione indù, ma che è esplicitamente presente anche nella tradizione islamica, in quanto il Testimone,as-Shahid, è uno dei più bei Nomi di Dio, ha un’importanza realmente fondamentale per comprendere le dottrine orientali e la prospettiva più puramente metafisica. Uno dei luoghi comuni che hanno corso in Occidente circa le dottrine orientali è infatti l’accusa mossa a queste ultime di panteismo, che è invece una delle concezioni più totalmente antimetafisiche, e pertanto non orientali, che vi possa essere. Il panteismo considera l’Assoluto, Dio, in un senso quasi materiale come la sostanza di cui sono costituite tutte le cose, mentre nella concezione vedantica, come nella dottrina islamica dellawahdat al-wujud, dell’ “unicità dell’esistenza”, l’Assoluto è inteso come l’unico vero Testimone della realtà, e le differenze fra gli esseri all’origine della realtà molteplice dipendono invece proprio dalla materia, ilprincipium individuationisdegli scolastici, intesa come lo schermo, la trama, l'ordito che riflette o vela in forma appunto molteplice l’unico Testimone, l’unico Sé trascendente.

Facciamo un esempio per far comprendere meglio questo aspetto della dottrina. Una luce può dissimularsi dietro innumerevoli veli, ma anche al di là dell’ultimo di questi veli quel che ancora ne traspare è sempre la stessa luce. Lo stesso si può dire di Dio. Egli è l’Unica e la sola Realtà, l’Unico Conoscitore: anche la più piccola delle creature, nella misura in cui esiste, partecipa della Conoscenza che Dio ha di Sé stesso. Il fatto che la maggior parte degli esseri non sia consapevole della propria vera natura non toglie nulla a questa verità essenziale, e la mancanza di questa consapevolezza dipende dalla false attribuzioni inerenti al mondo delle forme apparenti. Noi crediamo di essere il nostro corpo o la nostra anima, ma in realtà siamo realmente solo il nostro spirito, che si identifica nella propria radice all’Assoluto stesso. Oppure, ancora, crediamo che qualcosa sia il nostro bene quando non lo è veramente e non sappiamo accettare sinceramente la Volontà di Dio su di noi, il Quale solo conosce realmente quale sia il nostro vero bene!

Come dicono gli indù le cose non sono che “nomi”, nel senso che esse hanno rispetto all’Essenza divina la stessa relazione che hanno i nomi con gli oggetti designati; dunque le creature in se stesse, in quanto semplici veli sono un puro nulla, hanno un’esistenza semplicemente privativa. Se l’individuo non avesse semplicemente un’esistenza privativa, quella di essere un semplice limite, un nome che nulla toglie e nulla aggiunge all’Essenza divina, la realizzazione spirituale non sarebbe possibile. Come potrebbe infatti una realtà che fosse limitata fin nella sua essenza diventare infinita? Tale ipotesi, la quale implica che vi sia una molteplicità irriducibile di enti, è in realtà una vera e propria impossibilità che sfocia sul piano più strettamente religioso nel politeismo.

Invece, poiché la vera Realtà è solo l’Infinito, il finito che ha un’esistenza puramente illusoria, seppure non irreale, può raggiungere la pienezza dell’Essere semplicemente a seguito della caduta di quei veli, di quei limiti che lo separano appunto illusoriamente dall’Assoluto. Dice il Sacro Corano “Tutto ciò che è su di essa (la terra) si estingue, e rimane il volto del tuo Signore possessore della Maestà e della Bellezza”; ma per l’uomo spirituale che ha ricercato la vera Conoscenza questa estinzione non deve essere intesa come un annichilimento della coscienza, ma come l’ottenimento della Sua pienezza, e l’estinzione riguarda solo i limiti individuali che in quanto tali sono un puro nulla, limiti solo apparenti, come illusoria è l'ignoranza che li produce. Ecco a tale riguardo come si esprime il Sommo Maestro dell’Islam, Muhyddin ‘Ibn ‘Arabi, nel suoTrattato dell’Unità: “Se un uomo ignora qualcosa, poi lo apprende, non è la sua esistenza a estinguersi, ma soltanto la sua ignoranza: la sua esistenza permane, essa non è stata scambiata contro quella di un altro; l’esistenza del conoscente non è venuta ad aggiungersi all’esistenza dell’ignorante; non è avvenuta nessuna mescolanza di queste due esistenze individuali; non è che l’ignoranza ad essere stata abolita”, e aggiunge “Non pensare dunque che sia necessario estinguere la tua esistenza, perché ti veleresti con questa stessa [idea] di estinzione, diverresti tu stesso (per così dire) velo di Dio”.

In ultima analisi, quindi, quel che si manifesta come molteplice è essenzialmente inerente alla Realtà divina; procede da Lui ed in Lui e se appare come creazione, ciò è dovuto solo al fatto che il Tutto non è in se stesso divisibile, ma rimane Uno e senza traccia di molteplicità nonostante la molteplicità delle forme apparenti. È il fulcro deltawḥīd, la dottrina dell’Unità pura espressa nella Sura del Culto sincero; la molteplicità visibile nell’universo è dovuta unicamente alla prospettiva distintiva propria all’essere contingente.

Tutto ciò ci fa comprendere il significato profondo dell’espressione che caratterizza i santi dell’Islam come*‘arifun biLlah*, “conoscitori per mezzo di Dio”. In realtà, come abbiamo visto, non vi è conoscenza alcuna all’infuori di Dio, ma non di meno il santo ha completamente estinto le false attribuzioni di cui abbiamo parlato e realizzato la pienezza della conoscenza. Come il Profeta, egli compie quel viaggio celeste al di fuori del tempo, ilmiraj, che è un’anticipazione del suo stato di permanenza in Dio (baqa); o meglio, avendo estinto i veli delle proprie passioni, egli può cogliere quella che è la propria natura immortale, quel che egli da sempre è.

Le false concezioni e l’atteggiamento tipici della pseudo-spiritualità contemporanea conducono invece a un’ipertrofia dell’ego dovuta a una facile e tutta teorica identificazione dell’individuo con la Realtà assoluta, e che, questa sì, può essere considerata una delle varianti del cosiddetto panteismo. Riportando nuovamente l’insegnamento di Muhyddin ‘Ibn ‘Arabi, si può dire che tali concezioni conducano l’uomo a voler esercitare la “Signoria” prima di aver esercitato la “servitù”; producono cioè l’illusione secondo la quale egli finisce per auto-attribuirsi la condizione propria ai veri conoscitori di Dio quando non ha invece ancora minimamente estinto la propria individualità sottomettendosi allo spirito divino che è in lui tramite la sottomissione alla Legge rivelata.

Dopo aver parlato della contemplazione, dobbiamo ora dire qualcosa circa l’azione. Essa non deve essere identificata alla sua apparenza, perché questa può sussistere anche nel caso di esseri che hanno definitivamente superato il dominio dell’azione, come è innanzi tutto il caso degli Inviati divini, i quali, al di là delle apparenze, non agiscono effettivamente più. L’azione vera e propria si ha infatti in quella condizione di ignoranza nella quale gli uomini aderiscono all’opinione di essere appunto i veri artefici delle proprie azioni, mentre tutto quel che appare e che è soggetto al mutamento non dipende dal Principio divino se non come un riflesso. Come i molteplici e movimentati riflessi della luce del Sole sulle acque del mare non sono prodotti dal Sole, in se stesso immutabile, ma dal movimento delle acque, così le nostre azioni non sono prodotte dalla nostra natura spirituale immutabile, ma ne sono come un riflesso sulle acque dell’esistenza formale. La piena e corretta comprensione di ciò non conduce peraltro gli uomini all’inazione, ma anzi a liberarsi da tutti quegli impedimenti individuali che impediscono loro di divenire dei veri “servi inutili”. Non si tratta di non agire più, cosa peraltro impossibile, ma di continuare ad agire in nome di Dio, purificandosi così progressivamente dai veli dell’ignoranza dovuta alla falsa attribuzione delle azioni al soggetto illusorio costituito dal nostro io. Quando l'azione è corretta diventa simbolica, un atto di adorazione agito e vissuto.

È dunque infondata quella concezione stereotipata dell’Oriente, che lo vorrebbe fatalista e imperturbabile in un senso puramente formale, poiché i veri orientali mirano alla liberazione effettiva dal dominio dell’azione, e questa è al di là del mare del sacrificio che richiede per essere superato tutt’altro che un atteggiamento fatalista e passivo.

La metafisica orientale può essere per noi di grandissimo aiuto per non lasciarci velare dalla forma religiosa e dogmatica che la tradizione ha assunto in Occidente; ma non di meno dobbiamo ora riflettere un poco sulle ragioni profonde di queste differenze di forma assunte dall’insegnamento tradizionale. Se la Verità è infatti unica, le vie che vi conducono sono molteplici, e i mezzi contingenti atti a far pervenire gli uomini, altrettanto contingenti, alla vera Conoscenza devono adattarsi realmente alla loro natura, altrimenti non si potrà mai andare al di là di un’adesione puramente esteriore e convenzionale a una forma.

Fin dai tempi antichi vi sono state forme di eresia causate dall’incomprensione delle dottrine metafisiche orientali, e lo stesso Cristianesimo si è dibattuto fin dall’origine fra numerose eresie tutte dovute all’aspetto esplicitamente misterico della propria dottrina. Sembra infatti che l’occidentale sia particolarmente predisposto ad attribuirsi quella “Signoria” cui abbiamo accennato precedentemente, per chi ha bisogno della rete di protezione costituita da forme religiose che lo orientino il più esplicitamente possibile verso la dipendenza da Dio.

Per quanto l’occidentale possa trarre un certo beneficio dallo studio delle autentiche dottrine orientali, e noi siamo i primi a volerne sottolineare qui l’importanza, dobbiamo però dire che la riflessione, per quanto profonda, su certe verità metafisiche non sarà mai sufficiente a fargli ritrovare un orientamento autenticamente tradizionale, e finché egli si fonderà solo su di essa rischierà di restare prigioniero di un superficiale razionalismo e di una vaga filosofia. Tutto ciò non gli darà mai la forza per opporsi realmente alle passioni dell’anima, mentre se avrà fede in Dio riuscirà a pervenire per un’altra via alla stessa conoscenza degli orientali. Questa via è quella che conduce mediante il superamento per amore di Dio delle prove della vita alla piena presa di coscienza del carattere illusorio di questo mondo.

Così possiamo dire che vi è una ragion d’essere profonda nel fatto che l’insegnamento tradizionale si rivesta di forme differenti a seconda del procedere del ciclo dell’umanità. E non dobbiamo dimenticare che in origine ogni forma tradizionale si riferiva esclusivamente a particolari popoli e giurisdizioni spirituali. È solo con la confusione babelica conseguente allo sviluppo ciclico della manifestazione che si è giunti a Rivelazioni in cui la Tradizione attua forme atte a raccogliere uomini di qualunque provenienza. Lo stesso Cristo dice di non essere venuto se non per le pecore perdute del popolo di Israele, e spetterà ai suoi discepoli, in particolare a San Paolo il compito provvidenziale di adattare il Cristianesimo al mondo occidentale. Così si può dire che il Cristianesimo sia divenuto uno strumento di grazia per uomini appartenenti a qualsiasi popolo solo a seguito di un adattamento voluto dallo Spirito Santo. Nel caso della tradizione islamica, invece, la funzione da essa svolta di arca atta a raccogliere uomini di qualunque provenienza procede dalla rivelazione coranica stessa, cioè dal Verbo divino.

Ma non si tratta qui di dedicarsi a una sorta di teologia delle religioni comparate, ma di comprendere come non sia possibile aderire indiscriminatamente a qualsiasi forma tradizionale. Pur racchiudendo ogni forma la stessa Verità universale (parola che significa “volta verso l’Uno”), non tutte le forme sono accessibili a qualsiasi uomo indipendentemente dalla propria nascita, se non in casi particolarissimi, ma solo le ultime due Rivelazioni, cioè il Cristianesimo e l’Islam. Generalmente, ad esclusione di alcune eccezionalità e non considerando casuale la nascita, che è determinata dalla natura essenziale di un essere e non viceversa, per essere Indù occorre infatti nascere in una determinata casta, come per essere Ebrei occorre nascere nel “popolo eletto”; mentre per religioni come il Buddhismo si può dire che la difficoltà sia più di natura costituzionale; ma soprattutto occorre dire che non è possibile risalire il corso provvidenziale delle Rivelazioni, e per un cristiano il volgersi a una religione precedente significa compiere diversi errori simultaneamente: innanzitutto quello di non riconoscere che la propria religione racchiude le stesse verità di quelle precedenti, quindi quello di misconoscere la venuta provvidenziale del Cristo, successiva a quella di altri inviati precedenti, e infine il fatto che la figura del Cristo è connaturata all’ontologia di chiunque sia nato sotto il suo segno. Per questo le Sacre Scritture cristiane parlano dei tempi ultimi come di tempi di apostasia; “apostasia” significa letteralmente “volgersi indietro”, cioè essere incapaci di procedere in avanti nel difficile cammino dell’assimilazione della Conoscenza. Cosi facendo gli uomini si volgono indietro, verso quello che San Paolo chiama “l’uomo vecchio”, e ciò non ha solo un significato interiore, ma può riferirsi anche al volgersi verso residui di forme tradizionali scomparse, o comunque verso forme che, per quanto ancora viventi, si situino rispetto a questi uomini nel passato, pur restando valide per chi nasce nella loro giurisdizione spirituale.

Naturalmente l’assimilazione della Conoscenza deve innanzitutto avvenire secondo la direzione interiore simboleggiata dal braccio verticale della croce, ma occorre tuttavia non sottovalutare il supporto fornito dalle forme esteriori e dai dati tradizionali simboleggiati in questo caso dal braccio orizzontale. È fuori discussione e occorre tenerlo sempre presente nella maniera più chiara possibile che la conoscenza spirituale supera ogni contingenza formale e viene ugualmente attuata da uomini appartenenti a qualsiasi tempo, luogo e forma tradizionale. Costoro sapranno quindi sempre discernere il vero dal falso in qualsiasi modo gli si presenti. Tuttavia per chi non abbia ancora attinto a questi gradi della Conoscenza il supporto di alcuni dati tradizionali può essere, come si è detto, di grande sostegno e favorire il discernimento. È per questo che nel pieno riconoscimento dell’unità trascendente delle forme tradizionali e della loro validità in principio fino alla fine dei tempi non si può misconoscere l’apporto che le Rivelazioni successive possono dare anche ai credenti nelle Rivelazioni precedenti.

Per limitarci al solo ambito del cosiddetto monoteismo abramico, non si può misconoscere per esempio il fatto che nell’Ebraismo non sia fatta menzione della figura escatologica dell’Anticristo, oppure che nello stesso Cristianesimo i dati tradizionali relativi alla seconda venuta del Cristo si presentino in una forma molto più indeterminata di quanto avvenga nella dottrina presente nell’ultima Rivelazione del ciclo, l’Islam. È quindi evidente che le forme precedenti possono beneficiare del riconoscimento di alcuni strumenti di discriminazione apportati dalle Rivelazioni successive, soprattutto rimanendo nell’ambito delle tradizioni abramiche.

Se ogni forma tradizionale, in quanto porta aperta sulla Verità, è universale, in quanto forma è necessariamente esclusiva, nel senso che non è possibile praticare al tempo stesso più di una religione, né, come è stato detto la volta scorsa, fare del sincretismo. A questa universalità, che permette a ogni uomo realmente religioso di riconoscere la Verità contenuta nelle altre forme tradizionali, si contrappone alla fine dei tempi la “genericità” dell’Antitradizione, che dovrà costituire la grande parodia della Tradizione Primordiale visibilmente presente all’origine del mondo. Questa genericità ambigua dovrà essere tale da permettere il più possibile di ingannare ogni uomo facendo sì che tutti possano riconoscervisi.

Così, come è stato molto ben detto dallo Shaykh’ Abd al Wahid Pallavicini, l’Anticristo si presenterà in una forma tale per cui tutti coloro che non avranno saputo mantenersi fedeli alla Verità, a qualsiasi religione appartengano, lo scambieranno per colui che nella loro dottrina originaria dovrebbe invece costituire il Polo spirituale per eccellenza. Così gli Ebrei vi riconosceranno il Messia, i cristiani il Cristo della seconda venuta, e i musulmani a loro volta il Cristo, o il Mahdi, colui che dovrà precedere e preparare la seconda venuta di Gesù. Inoltre i musulmani della fine dei tempi potranno incorrere in un altro grave errore che è quello di combattere il vero Mahdi additandolo per l’Anticristo.

A tale forma di genericità non si perviene tuttavia d’improvviso, ma per fasi successive, e noi vediamo già da tempo in atto certe forze di suggestione collettiva che stanno facendo perdere alla maggior parte degli uomini la loro stessa perspicacia naturale, facendogli sempre più accettare e “digerire” cose che fino a qualche tempo fa non potevano manifestarsi a causa delle nette reazioni che avrebbero provocato.

Non dimentichiamo d’altra parte che la trasparenza dottrinale è uno dei segni più evidenti dell’efficacia operativa e della regolarità di tutti gli altri aspetti simbolici e rituali di una forma tradizionale. E questa trasparenza dottrinale è tutt’uno con un’effettiva capacità di discriminazione. Essa deve cioè essere il segno di una reale integrazione all’interno di un quadro tradizionale che fa partecipare i suoi membri di un’infallibilità e di un discernimento che va ben al di là della loro attuale penetrazione dell’ispirazione che li guida, così come un quadro non più conforme e ortodosso può farli partecipare di suggestioni che vanno a loro volta ben al di là di quel che questi potrebbero sospettare. Come diceva qualcuno, vi sono uomini che letteralmente si spaventerebbero se sapessero da quali forze sono realmente mossi. È bene dunque prendere coscienza del fatto che il discernimento richiesto alla fine dei tempi non è a misura d’uomo, cioè dell’uomo carnale, ma richiede tutti i supporti spirituali che solo il Testimone della tradizione può fornire. Alla fine neppure la competenza dottrinale sarà sufficiente per discriminare tra le forze cristiche e quelle anticristiche: occorrerà invece una profonda sintonia con la Verità, ottenuta grazie alla disciplina spirituale garantita dall'impiego di tutti i supporti sacrali e tradizionali, sintonia che vada oltre alla semplice conformità verbosa o d'espressione, perché, è insegnato, che l' "impostore" saprà ingannare anche gli eletti, se questo fosse possibile.

E oggi, a quasi settant’anni di distanza dagli avvertimenti di René Guénon, troppo poco ascoltati, dobbiamo sottolineare come tutto ciò sia divenuto altrettanto rigorosamente valido anche per le organizzazioni orientali. In questi anni gli uomini stessi sono profondamente cambiati e la soglia di discriminazione si è di molto affievolita, per cui, come abbiamo detto, fenomeni che un tempo avrebbero provocato reazioni e prese di coscienza immediate lasciano oggi quasi indifferenti; ciò fa parte di quello stato di intorpidimento o di “anestesia” che è una delle conseguenze più evidenti dell’azione delle potenze d’illusione dell’Antitradizione. Ma è naturale che coloro che aspirino a far parte di quelle eccezioni cui si è fin dall’origine indirizzata l’opera di René Guénon dovranno proprio per questo elevarsi al di sopra di questo genere di condizionamenti psichici e contingenti, e trovare nella Verità e nella fede la sola roccia cui ancorarsi.

Va da se infatti che la prima attitudine richiesta agli uomini della Tradizione è l’accettazione e l’amore per la Verità, totalmente indipendente da qualsiasi attaccamento nostalgico al passato dell’Occidente e delle sue organizzazioni tradizionali, così come da qualsiasi esotismo orientaleggiante. Solo la conformità interiore alla Verità, ciò che costituisce la vera integrità, può infatti permettere di riconoscerne le contraffazioni. E il solo aiuto che può essere fornito a qualcuno è quello di favorire in lui la presa di coscienza della Verità e di aiutarlo a evitare di cadere negli errori e nelle illusioni che sempre più dilagano ai nostri tempi, consapevoli però del fatto che non si potrà mai prescindere dallo sforzo personale che ciascuno dovrà compiere su se stesso per potere discernere sempre meglio la realtà. L’esperienza ci ha infatti insegnato che l’Occidente è pieno di inguaribili ottimisti sempre pronti a riconoscere in qualsiasi cosa, anche nella più banale, i segni della presenza divina e per i quali invece mai alcun segno negativo potrà essere sufficiente per aprire finalmente gli occhi sulla vera realtà.