…Felicità, bene finito e Bene Infinito / seconda parte

…Felicità, bene finito e Bene Infinito / seconda parte

Pubblichiamo la seconda parte dell'articolo "La società dell'Intrattenimento".

Come abbiamo anticipato nell'articolo precedente, la peculiarità dell'essere umano, potremmo meglio dire la sua vera ragion d'essere, sta nel fatto che egli è in qualche modo in relazione e capace del Tutto, della totalità infinita. Questa relazione, oltre a determinare molte conseguenze su di un piano speculativo, ha un riflesso determinante anche sul piano pratico della vita di ogni uomo e donna, proprio perché riguarda la loro possibilità di raggiungere un'autentica felicità, nel senso del termine grecoeudaimonia, espressione che viene tradotta in inglese con flourishing, e che offre molto bene l'idea di una realizzazione piena, di una completezza, come il seme che trova il suo completamento nel crescere e fiorire. Se si rinuncia alla fruizione di questo Bene in sé, se si dimentica tale dimensione di universalità, per ciò stesso l'uomo si condanna all'infelicità.

Poi, che il fine ultimo di ogni esistenza umana coincida con la possibilità della pura contemplazione e della Conoscenza è una certezza che ogni forma tradizionale ha sempre veicolato, dalla Grecia dei Misteri, di Pitagora, Platone e Aristotele, fino all'India e all'Estremo Oriente.

Dunque le possibilità offerte dal mondo attuale sembrano certo moltissime, variegate, in grado di appagare ogni bisogno o desiderio, reali o presunti che siano, e di estendere incondizionatamente la possibilità della felicità piena, ma in realtà mancano il loro reale obiettivo. Innanzitutto si direbbe che più che appagare bisogni reali la società attuale "crei" e produca i desideri stessi, e poi piazzi sul mercato il prodotto adatto a soddisfarli, veicolando tanto merci materiali che intellettuali. Ѐ una dinamica che appare oramai chiara, ma che resta comunque odiosa: infatti, nel fare questo, con un paralogismo retorico, la società attuale e consumistica pretende di potersi ergere al di sopra di ogni altra civiltà umana in termini di possibilità di felicità raggiungibile, disprezzando le altre come "arretrate" e "inappaganti" in quanto incapaci di far comunemente disporre le proprie componenti dei beni a cui oggi invece avrebbero accesso. E perciò si fa presto a dipingere queste società come mondi infelici e oppressi, faticosi e duri. Ѐ chiaro che questa narrazione regge solo e soltanto nella misura in cui si pone come criterio di giudizio la merce a cui si ha accesso o il "benessere materiale". Ma non è affatto così: ciò vale solamente se si scambia la felicità con la ricchezza materiale o con la comodità, ossia se si limita irrimediabilmente l'orizzonte intellettuale umano e la sua possibilità di conoscenza. Un uomo del Medioevo europeo, o di altri mondi tradizionali, non è affatto maggiormente infelice in quanto non è ricco, o in quanto non possiede dei marchingegni che gli permetterebbero di vivere più comodamente o di “saziare” un’insaziabile e inguaribile sete di desideri; piuttosto è felice nella misura in cui non possiede, o meglio, non è egli stesso posseduto da bisogni illusori o desideri appositamente messi in circolazione - si pensi alle mode e ai loro scatenamenti -, e che necessitano di essere esauditi per essere acquietati. Ѐ quasi una questione di assuefazione: si è a più non posso agitati e mossi dall'agitazione che si fa sempre più vorticosa, e mentre si subisce questa corrente si irride chi indica la felicità laddove invece è la quiete, ossia al di fuori della corrente stessa. Sostiene, qui a piena ragione, Serge Latouche, un filosofo molto lontano dal nostro modo di vedere: «siamo diventati dei tossico dipendenti della crescita, un meccanismo che tende a produrre infelicità perché si basa sulla continua creazione di desiderio. E il desiderio, a differenza dei bisogni, non conosce sazietà».

E difatti non bisogna certo avere chissà quale profondità di intelletto per accorgersi che il mondo di oggi è sì il mondo in cui è quasi a disposizione tutto a tutti, ma è al contempo anche quello in cui quasi nessuno è davvero soddisfatto o felice. Basta una semplice analisi di coscienza per constatarlo. Inevitabile quindi è l'ipocrisia di chi, guardando altri mondi, giudica quegli uomini e infamia la loro semplicità ed essenzialità definendole miseria, o ancora di chi dipinge la loro stabilità ed equilibrio, che l'Occidente moderno è in realtà incapace di raggiungere, come arretratezza e mancanza di "progresso". Certo chiunque oggi può muoversi più velocemente, avere cose che fino a qualche tempo fa erano impensabili, relazionarsi con più facilità, ecc., ma in realtà nulla di tutto ciò aggiunge qualcosa alla nostra esperienza e penetrazione della Realtà, anzi tutt'al più ne favorisce una precarizzazione. Non si raggiunge la felicità sostituendo la coscienza del significato e del fine della vita umana con beni e servizi; anzi così facendo si esclude ogni reale possibilità di raggiungerla e ci si condanna ad una infelicità inaggirabile. Dunque il paradigma è fallace, la formula è falsa. E non ci inganna il fatto che la Dichiarazione d’Indipendenza americana del 4 luglio 1776, mossa dai miti e dai pregiudizi progressisti e capitalistici, stabilisca per ogni uomo il diritto al “perseguimento della felicità”: si tratta infatti della soddisfazione solo individuale, consumistica e illusoria, oltreché scevra da una vera prospettiva di Bene comune e generale, di cui abbiamo appena parlato.

Ora, la questione riguarda l'umanità in quanto tale, e questo significa che in realtà ogni uomo ne è interessato, e dunque ogni uomo inevitabilmente, in modo esplicito o implicito, finisce per rispondere a questa domanda sul proprio destino. Ѐ qualcosa che, in una certa misura, trapela da ogni azione o scelta umane. Ma in che senso?

Nel senso che ogni azione di ogni uomo tende a realizzare, più o meno consapevolmente, un certo passo verso un fine, verso una meta, prefigurata con maggiore o minore precisione. Anche quando il fine non è pressoché immediato, facciamo qualsiasi cosa in vista di qualcos'altro, e mai in vista di nulla. Ogni azione o scelta esplicita una direzione, è intenzionale. Ora, questa meta o coinciderà con il fine ultimo de facto, o, comunque, rinvierà al fine ultimo de facto che l'uomo implica sempre nel proprio agire. Ed è Aristotele stesso che, nell'Etica Nicomachea, identifica inevitabilmente tale finalità con il Bene supremo o infinito: «Se esiste un fine delle cose che sono oggetto d'azione che vogliamo per se stesso, e le altre cose in ragione di questo, e non scegliamo ogni cosa in ragione di altro (altrimenti infatti si procederebbe all'infinito, di modo che il desiderio sarebbe vuoto e inutile), è evidente che questo fine sarà il bene, voglio dire il Bene supremo» Aristotele, Etica Nicomachea, I, 1, 1194a - 18-22. In altre parole, ogni volta che agiamo, diciamo "sì" a qualcosa, foss'anche il progetto più nichilista o scettico, e questo "sì" afferma nient'altro che una vera e propria prefigurazione di quale sia il nostro destino, cioè di quello per cui la nostra vita umana è fatta.

Quest'esito è stato ereditato da tutta la tradizione cristiana che, come ogni aspirazione alla Sapienza, non si è limitata a rilevare che c'è un fine ultimo de facto, che nessun uomo può negare senza cadere in contraddizione con la propria azione e vita, ma si è chiesta quale fosse il fine autentico, si potrebbe dire il fine ultimo de jure, per giudicare se i due coincidano o meno. E infatti spiega San Tommaso: «Dal punto di vista formale, tutti convengono nel desiderio del fine ultimo; poiché tutti desiderano compiere la propria perfezione, che è il senso del fine ultimo (…). Ma, dal punto di vista del contenuto, non tutti gli uomini convengono nell'ultimo fine. Infatti, alcuni desiderano le ricchezze come bene supremo; alcuni il piacere; alcuni altre cose ancora» San Tommaso, Summa Theologiae, I, II, q.I, a.7. Ma già lo Stagirita, nel passo che abbiamo riportato, ha indicato che il fine di ogni azione e intenzione non può che essere, per quanto misconosciuto, il Bene supremo, e questo ci è testimoniato proprio dalla struttura stessa del desiderio: se il desiderio dell'uomo è aperto, non a questo o quel bene specifico, ma piuttosto al bene come tale, allora dire che l'uomo possa essere pienamente felice nella misura in cui realizzi soltanto uno qualunque tra i suoi scopi, sia esso personale, sociale, sensuale, o comunque riconducibile a termini che si possono immaginare e che perciò lo rendono finito (in quanto lascia al di fuori di sé altro bene), significa autocontraddirsi «La Scrittura, la Fede, e la Verità attestano come il peccato non sia altro, da parte della creatura, che l’allontanarsi dal Bene immutabile e il dirigersi verso il bene mutevole; cioè la creatura si distoglie dal Perfetto per volgersi verso “quello che è parziale” e imperfetto, e più spesso verso se stessa» (Teologia tedesca, 2).

Detto sinteticamente: dire che l'uomo possa essere completamente appagato da un bene che non sia infinito, significa descrivere in maniera autocontraddittoria la natura umana: descrizione di fronte alla quale saremo costretti ad affermare, inversamente e per liberarci dalla contraddizione e dunque per essere ragionevoli, che invece l'uomo è fatto costitutivamente per la fruizione di un Bene che sia infinito. È questa la conclusione a cui arrivano, anzi da cui partono per poterlo effettivamente realizzare, tutte le tradizioni da Oriente ad Occidente: ovunque si dice infatti che l’uomo abbia in realtà soltanto l’aspirazione per l’Assoluto o Bene infinito, per la Liberazione dalle limitazioni prodotte dall’ignoranza della propria vera natura. Solo che tale ignoranza ricopre e nasconde quest’aspirazione unica, proiettando su di essa una pluralità di desideri e smanie che velano come una trama senza confini la ricerca dell’esperienza della pace e felicità infinite. Soggiacente ai mille giri dei desideri fittizi e relativi di ognuno vi è in realtà l’unica vera aspirazione alla Beatitudine Disse lo Shaykh ad-Darqawi in una lettera ad un suo discepolo: «Ogni uomo ha molteplici bisogni, ma in realtà ha bisogno d’una sola cosa, ossia di ricordarsi veramente di Dio; se ha acquisito questo, nessuna cosa potrà più mancargli, la possegga o meno».

L’uomo, lo abbiamo detto in questi articoli In Il relativismo e i suoi presupposti ideologici…Libertà, Bene e Regole religiose; La società dell’intrattenimento., è in grado di concepire l’Assoluto, è libero di volere e dunque ha la coscienza di una diversità illimitata di possibilità; ugualmente è capace di un amore che oltrepassa i fenomeni e sfocia nell’Infinito, e anche di un’attività che ha la sua finalità nel Bene infinito, di là dagli interessi terreni e finiti. Tutto ciò testimonia a proprio modo che l’uomo non si esaurisce nella sua realtà biologica.

Ci appare ora forse più chiaro che se misconosciamo quest'apertura all'Infinito che l'uomo possiede in virtù della sua Fitrah, in virtù cioè della sua natura primordiale e originaria, rappresentata proprio dalla Croce, con la espansione nei due sensi dell'ampiezza e dell'esaltazione, allora rinunciamo con ciò alla vera e autentica felicità, e anche alla possibilità di penetrare in profondità la Realtà.

Tutto ci apparirebbe pertanto inevitabilmente insensato, contraddittorio, "ingiusto", proprio perché avremmo separato arbitrariamente una dimensione della realtà dal Tutto cui inerisce, e avremmo posto l' "io" al Centro di tutte le cose, invece di Colui che di tutto è origine e fine. Se vediamo tutto "per" l'io, o se separiamo una parte dal Tutto, questo mondo dall'Altro, inevitabilmente vedremo disordine e disarmonia, male e ingiustizia; se invece vediamo le cose per quello che sono, in riferimento al Tutto, allora vedremo come tutte le parti concorrano inevitabilmente, ognuna secondo la propria modalità, alla formazione dell'Ordine universale, riflesso dell'Unità divina. Non il Tutto è per noi, ma noi saremo giusti se ci "aggiusteremo" all'ordine delle cose.

Questo per dire che in ogni punto, preso a parte e in se stesso, lo squilibrio, la disarmonia, l'ingiustizia, sono certamente concepibili; ma ciò non inficia l'ordine in quanto tale. Detto altrimenti, l'esistenza ad esempio del dolore, che tanti dubbi sembra far insorgere sulla Presenza di un Ordinatore che sia anche il Bene infinito stesso, in realtà è perfettamente comprensibile e integrabile in questa prospettiva. Quando si dice comunemente che l’esistenza del dolore nel mondo, testimoniataci unanimemente dall’esperienza condivisa, neghi l’esistenza di Dio come garante di un senso buono dell’esistenza, si “sovraccarica” senza giustificazione la nozione di dolore con qualcosa che non le appartiene con certezza: non è immediatamente noto, infatti, che il dolore sia insensato, ovvero che sia intrinsecamente e totalmente cattivo, e dunque irrecuperabile ad una prospettiva di bene. Anzi, se ne cercassimo, come abbiamo cercato di mostrare, l'eidos, l'essenza, vi potremmo scorgere una via privilegiata proprio al riconoscimento della Trascendenza e della vita come relazione ad essa.