Crisi e analfabetismo sulla religione

Crisi e analfabetismo sulla religione

Parlare di crisi della religione e di analfabetismo religioso, oggi, potrebbe sembrare superfluo, in un mondo sempre più secolarizzato che pensa di poter fare a meno di Dio.

Tuttavia, in un contesto come quello che ci vede ora riuniti, potrebbe essere utile definire meglio il problema considerandolo da due prospettive religiose diverse, per studiare insieme eventuali strategie che possano contribuire ad un’auspicabile, anche se minima, inversione di tendenza.

Innanzitutto, di crisi della religione si può parlare a condizione che si abbiano chiari i punti fermi che contraddistinguono la religione stessa. Un grande sapiente musulmano, lo Shaykh Abd al-Wahid Yahya, morto al Cairo nel 1951, che ha saputo fare da ponte fra la mentalità occidentale moderna e quella autenticamente religiosa, a-temporale e orientale in quanto “orientata” verso Dio, così definiva i caratteri essenziali di una vera religione:

«Noi diciamo che la religione comporta essenzialmente la riunione di tre elementi di carattere diverso: un dogma, una morale, un culto; dovunque venga a mancare uno qualunque di questi elementi, non si tratterà più di religione nel senso proprio della parola». (Introduzione Generale allo Studio delle Dottrine Indù, P.II, Cap.4)

È abbastanza evidente che oggi, limitandoci anche solo alle tre religioni abramiche, ci siano notevoli carenze nell’armoniosa interazione di questi tre aspetti: è chiaro quindi che non possiamo limitare l’analfabetismo religioso alla sola carenza dottrinale, anche se essa costituisce un fatto di per sé abbastanza grave.

Non ci aiuta molto conoscere i dati, effettivamente disarmanti, emersi dal “Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia” curato dall’amico e storico delle religioni Alberto Melloni, e possiamo essere certi che, anche se non è stato ancora condotto uno studio simile, le altre religioni non stanno meglio, almeno per quanto riguarda le nuove generazioni, sempre più “connesse” ad un mondo virtuale e scollegate da quello reale.

Il vero analfabetismo religioso, in realtà, intacca tutti gli aspetti della religione, minandone le fondamenta stesse e costituendo la vera causa della crisi a cui assistiamo.

Cosa possono fare dunque oggi gli “uomini di buona volontà”, che non accettano di considerare questo stato di cose come un fatto compiuto?

Occorre innanzitutto scongiurare la tentazione di recuperare il “messaggio originario” della propria religione, almeno nell’accezione comune che sentiamo a volte proclamare da più parti, tentazione ricorrente ma sempre fallita tragicamente, sfociando spesso in sterili letteralismi, che hanno generato formalismi, esclusivismi e integralismi di ogni genere.

Quando viene a mancare il riconoscimento dei sapienti che hanno sempre interpretato le scritture rendendole fruibili ai fedeli, a seconda dei vari livelli di comprensione, allora ci si appella unicamente al testo sacro, cercando di depurarlo delle infrastrutture culturali e istituzionali di secoli di storia; le Tradizioni Religiose non mutano, è vero, ma si “adattano” ai tempi e ai luoghi in cui si manifestano, senza perdere però nulla dell’essenza che le ha originate.

Non possiamo cancellare d’un tratto secoli di storia religiosa che, nel bene e nel male ci hanno portato a vivere hic et nunc la nostra spiritualità. Ebbene sì, anche nel male, che fa parte delle misteriose dinamiche divine:

«È possibile che abbiate avversione per qualcosa che invece è un bene per voi, e può darsi che amiate una cosa che invece è un male. Iddio sa e voi non sapete». (Corano II, 216)

Questo adattamento provvidenziale delle religioni, che lo vogliamo o no, fa parte di una meravigliosa operazione divina che, come vedremo fra poco nel testo che commenteremo, il De Vera Religione di Sant’Agostino, ci obbliga, per essere efficaci nell’azione in questo mondo, ad elevare lo sguardo al di sopra delle nostre differenze, pur restando fedeli alla nostra religione.

In quanto uomini religiosi, ci deve muovere un’intenzione il più possibile pura e scevra da interessi individuali e particolari, consapevoli della nostra comune funzione di “servitù spirituale”.

Per noi musulmani, il modello perfetto di tale servitù spirituale è il Profeta Muhammad, messaggero dell’Islam, tramite il quale avviene la rivelazione del sacro Corano, chiamato anche “Sigillo della Profezia”, così come Gesù, sempre nella tradizione islamica, è detto “Sigillo della Santità”. Questo significa che, per noi musulmani, non c’è Profeta più grande di Muhammad (su di Lui la pace e la benedizione di Dio), mentre non c’è Profeta più “santo” di Saidna Isa, ovvero Nostro Signore Gesù, ed entrambi accomunati dalla servitù spirituale e dalla pura “sottomissione a Dio nella pace”, traduzione letterale del termine Islam.

«Nell’Islam – scrive l’imam Yahya Pallavicini nel suo libro “Il Misericordioso, Allah e i Suoi Profeti” – vi è un richiamo di particolare Misericordia attraverso le funzioni degli ultimi due Profeti: Gesù e Muhammad. Si tratta di saper cogliere nei segni che la vita offre tutti i giorni quel ricollegamento alla dottrina universale in modo da poter ancora riconoscere la presenza profetica, che non è legata a un’epoca storica passata, bensì costituisce quella luce che si riflette nello specchio di Dio in ogni luogo e in tutti i secoli». (Il Misericordioso. Allah e i suoi profeti, Edizioni Messaggero di Padova, 2009)

Come recita il Sacro Corano:

«Noi ti abbiano inviato – Allah si rivolge al Profeta Muhammad* – solo come misericordia per i mondi»* (Corano 2, 107),

così come «Faremo di Gesù un segno per le genti e una misericordia da parte Nostra»(Corano 19, 21)

Mi sia concessa qui una digressione nel campo di una religione molto distante da noi ma in sintonia su questo aspetto: questa misericordia per i mondi non è forse la stessa compassione universale per tutti gli esseri del creato, animati e inanimati, del Buddha, “il Risvegliato”?

Questa misericordia “cosmica” di Dio verso il creato attraverso i Suoi Inviati, si deve tradurre a sua volta, per noi religiosi, in un atteggiamento il più possibile equivalente, nei limiti imposti dalla natura umana, cercando però di mantenere sempre la giusta prospettiva.

Ma qual è questa “giusta prospettiva”? Ci viene in aiuto un testo della patristica cristiana, il De Vera Religione di Sant’Agostino, che prendiamo oggi ad esempio, quale eccellente sintesi dottrinale che può servire ad entrambi, cristiani e musulmani, ad elevare lo sguardo su un piano che superi le divisioni, senza tuttavia annullarle.

Agostino compose il “De vera religione” all’età di 35 anni come una piccola “summa” del suo pensiero, contenendo infatti una trattazione dei temi più importanti a cui il santo avrebbe dedicato le opere successive, tanto che, rileggendo l'opera da vecchio vescovo ormai prossimo alla morte, non ebbe da fare, nelle “Retractationes”, che annotazioni molto marginali, confermando così la validità dell’ispirazione originaria che è giunta fino a noi.

Cos’è dunque per Agostino “La Vera Religione”?

«Guardiamoci dal servire la creatura invece del Creatore, dal perderci dietro alle nostre fantasie: in questo consiste la perfetta religione». (De Vera Religione10,19)

Dunque in poche battute e con grande semplicità ci viene detto cos’è la vera e perfetta religione: servire solo Dio senza aggiungere nulla di nostro, perché sarebbero solo fantasie.

Dovremmo dunque servire solo Dio e dimenticarci del prossimo? No, ma non dobbiamo servire il prossimo “invece” del Creatore, ma come ricaduta e applicazione della Sua infinita misericordia, come scrive l’Apostolo Giacomo:

«Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo» (Gc. 1,27).

L’Islam, contrariamente ad un’opinione diffusa, non disdegna affatto l’amore per il prossimo, e ve ne sono innumerevoli testimonianze nel Corano:

«La carità non consiste nel volgere i volti verso l'Oriente e l'Occidente, ma nel credere in Allah e nell'Ultimo Giorno, negli Angeli, nel Libro e nei Profeti e nel dare dei propri beni, per amore Suo, ai parenti, agli orfani, ai poveri, ai viandanti diseredati, ai mendicanti e per liberare gli schiavi.» (Corano II, 177)

Non troviamo in questa descrizione della carità una straordinaria sintonia con il passo di Agostino? Perché anche noi musulmani siamo chiamati ad aiutare il nostro prossimo, siano essi parenti, orfani, poveri, viandanti diseredati, mendicanti o schiavi, ma innanzitutto per amore di Dio, che deve sempre venire al primo posto.

«Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?– chiesero a Gesù –Rispose: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti.» (Mt. 22,36)

Nel 2007 trecento sapienti dell’Islam, professori e guide religiose, scrissero una lettera aperta indirizzata a tutti i cristiani nel mondo, dal titolo “Una Parola Comune tra Noi e Voi”.

L’Appello, che riprende l’invito espresso nel Corano: «O Genti della Scrittura! Venite a una parola comune tra noi e voi» (Corano 3,64), approfondisce i passi scritturali che accomunano Cristianesimo e Islam e questo è l’incipit:

«Il futuro del mondo dipende dalla pace tra Musulmani e Cristiani.La base per questa pace e comprensione esiste già. Fa parte dei princìpi veramente fondamentali di entrambe le fedi: l’amore per l’unico Dio e l’amore per il prossimo. Questi princìpi si trovano ribaditi più e più volte nei testi sacri dell’Islam e del Cristianesimo. L’Unicità di Dio, la necessità di amarLo e la necessità di amare il prossimo sono così il terreno comune tra Islam e Cristianesimo».

Il riferimento del testo aiprincìpi veramente fondamentali di entrambe le fedi, ci permette di proseguire con Sant’Agostino: esiste una verità, unica ed immutabile, che è Dio stesso, (Al-Haqq, “La Verità”, uno dei 99 più bei Nomi di Allah), che si manifesta in tempi e luoghi differenti, per mezzo dei Profeti.

Leggiamo dal De Vera Religione:

«Il caposaldo di questa religione (Agostino parla ovviamente del Cristianesimo) è costituito dalla profezia, il manifestarsi nel tempo della divina Provvidenza per la salvezza del genere umano, che doveva essere restituito alla sua condizione originaria in vista della vita eterna. Credendo queste cose, si terrà uno stile di vita conforme ai divini precetti, per cui la mente si purificherà e diventerà capace di comprendere le realtà spirituali, che non hanno né passato né futuro ma, non essendo soggette a mutamento, restano sempre identiche». (De Vera Religione, 7,13)

E ancora: «L’ineffabile misericordia divina viene in aiuto in parte di ciascun uomo, in parte dello stesso genere umano, secondo un’economia di ordine temporale, per mezzo di creature mutevoli ma sottomesse alle leggi eterne, allo scopo di ricordare la loro primitiva e perfetta natura». (Ibid. 10, 19)

Queste “creature mutevoli ma sottomesse alle leggi eterne”, sono i Profeti, gli stessi per Ebrei, Cristiani e Musulmani, inviati da Dio per ricordarci la nostra “primitiva e perfetta natura”.

«La Misericordia di Dio – leggiamo ancora dal libro dell’Imam Pallavicini – ha dunque decretato di inviare sulla terra una successione di “Profeti, messaggeri e ammonitori” che hanno provvidenzialmente riportato una disciplina spirituale pur favorendo la moltiplicazione delle comunità in vari gruppi religiosi. Il richiamo dei messaggeri che ispirano le varie comunità religiose è solamente quello di orientare i credenti alla Verità consentendo loro di distinguerla dalla falsità, di rinnovare il ricordo del servizio di Dio e non del servizio degli uomini, il ricordo della responsabilità in questo mondo in vista dell’Altro mondo, il richiamo alla pratica delle virtù spirituali e non dei vizi individuali.

La successione dei Profeti dall’inizio dei tempi ad oggi, dal Primo Uomo Adam al Sigillo della Profezia Muhammad, porta all’umanità l’insegnamento divino, che permette di qualificare l’esistenza di coloro che sappiano disporsi ad accoglierlo secondo una dimensione e una prospettiva più ampia e più nobile. Una prospettiva che parta dalla certezza della fede, dalla fede certa nel miracolo di una presenza spirituale che ci trascende e che nello stesso tempo è immanente e operante nella nostra vita.»

Da dove deriva la straordinaria sintonia fra questo testo del nostro Imam e quello di Agostino?

Le stesse espressioni derivano da un’unica fonte, da quelle “realtà spirituali, che non hanno né passato né futuro e che, non essendo soggette a mutamento, restano sempre identiche”, ma possono, anzi devono, essere declinate e applicate alle diverse comunità religiose di appartenenza.

L’Islam utilizza un termine molto particolare per definire queste realtà spirituali eterne ed immutabili: ad-dîn al-qayyima, “Religione Assiale, o Religione Primordiale” che ha origine con la creazione di Adamo, primo uomo e primo profeta per l’Islam.

Il Sacro Corano ricorda una lunga catena di Profeti da Adamo fino a Muhammad, i quali, fedeli a quell’unica Verità che è Dio Stesso, sono stati lo strumento provvidenziale attraverso cui Egli ha adattato per tempi, luoghi e popoli differenti appunto quell’unica Tradizione primordiale, il cui contenuto è la testimonianza di fede islamica: lâ ilâha illâ Allâh, «non c’è dio se non Iddio», l’Unico e lo Stesso per tutti. Tali adattamenti, che non vanno intesi come impoverimenti o, peggio, tradimenti della Verità, non sono altro che il succedersi delle Rivelazioni, per richiamare gli uomini all’adorazione dell’Unico Dio:

«Ad ogni comunità inviammo un profeta che dicesse: ‘Adorate Iddio e fuggite gli idoli!’». (Corano XVI, 36)

Sfatando un altro pregiudizio che vedrebbe l’abrogazione da parte dell’Islam delle rivelazioni precedenti, possiamo dire che esse sono tutte riconosciute e confermate nella loro validità da quella che ne è il sigillo, l’Islam, come Sigillo della Profezia è Muhammad:

«E Noi ti abbiamo fatto discendere il Libro secondo verità, a conferma delle Scritture precedenti e a loro protezione». (Corano V, 48)

Forse pochi sanno che il Corano si pone sempre positivamente nei confronti delle altre fedi:

«Dite: Crediamo in Dio e in quello che è stato fatto scendere su di noi e in quello che è stato fatto scendere su Abramo, Ismaele, Isacco, Giacobbe e sulle Tribù, e in quello che è stato dato a Mosè e a Gesù e in tutto quello che è stato dato ai Profeti da parte del loro Signore. Non facciamo differenza alcuna tra di loro e a Lui siamo sottomessi.»(Corano, 2,136-137)

Il riconoscimento delle altre religioni è quindi nel DNA stesso dell’Islam, mentre il dialogo con esse è un obbligo:

«Dialogate con belle maniere con le genti del Libro e dite loro: “Crediamo in quello che è stato fatto scendere su di noi e in quello che è stato fatto scendere su di voi, il nostro Dio e il vostro sono lo stesso Dio ed è a Lui che ci sottomettiamo”». (Corano 29,46)

Con il termine “Genti del Libro”, Ahl al-Kitāb, il Corano si riferisce ai fedeli di quelle religioni che fanno riferimento a testi ritenuti di origine divina dallo stesso Islam: la Tōrāh per gli ebrei, l'Injīl per i cristiani, l’Avesta per gli zoroastriani. Successivamente, durante il califfato Omayyade (661-750 d.C.), quando l’Islam arrivò anche in India, i buddhisti e gli indù chiesero che fosse loro concesso di mantenere la libertà di religione, che ottennero con quello che è ancora oggi noto come il “Concordato di Brahmanabad,” che dichiara anche i buddhisti e gli indù “Genti del Libro.”

Ma Torniamo a Sant’Agostino con un altro suo testo, “Retractationes”, l’ultimo, che compose all’età di circa ottant’anni, quando, da anziano vescovo, ritenne utile revisionare le ben 93 opere da lui scritte, senza considerare sermoni e lettere.

Ebbene, come abbiamo visto, del De Vera Religione non cambiò praticamente nulla, anzi, ne confermò lo spirito esprimendo gli stessi concetti con più maturità e maggiore forza:

«Allora scrissi anche un libro su “La Vera Religione”. Nella discussione ivi contenuta si dimostra con svariate e numerose argomentazioni che con la vera religione si deve onorare l'unico vero Dio [...] e che la vera religione sia stata concessa agli uomini attraverso un disegno legato alla temporalità [...]. Questa è, ai nostri tempi, la religione cristiana, conoscendo e seguendo la quale si ottiene la salvezza col massimo di sicurezza e di certezza. Mi sono espresso così facendo riferimento al nome e non alla realtà ch'esso designa. In effetti quella che ora prende il nome di religione cristiana, esisteva già in antico e non fu assente neppure all'origine del genere umano, finché venne Cristo nella carne. Fu allora che la vera religione, che già esisteva, incominciò ad essere chiamata cristiana. [...] Per questo ho detto: Questa è ai nostri tempi la religione cristiana, non perché un tempo non esistesse, ma perché più tardi prese questo nome». (Retractationes – 13,1-2)

Parafrasando Sant’Agostino, si potrebbe dire dunque che quella che ora prende il nome di Islam esisteva già in antico e non fu assente neppure all'origine del genere umano, fin quando fu fatto discendere il Corano nel cuore puro e vergine di Muhammad. Fu allora che la vera religione, che già esisteva, incominciò ad essere chiamata islamica.

La sfida a cui siamo chiamati oggi è di sapere se possiamo riconoscere la Verità presente nelle altre religioni pur restando fedeli alla nostra. Noi vogliamo testimoniare qui, in quanto musulmani, che ciò è possibile e anzi doveroso, praticandone ovviamente una e una sola, senza confusioni e sincretismi. Basta, in effetti, comprendere che tale unità della Verità non è di natura formale, né pertiene al piano del linguaggio, ma deriva solo dal mistero di Dio, il Quale ha provvidenzialmente voluto che le religioni fossero diverse, come lo sono gli uomini stessi:

«Ad ognuno di voi abbiamo assegnato una via e un percorso. Se Iddio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità. Vi ha voluto però provare con quel che vi ha dato. Gareggiate in opere buone: tutti ritornerete a Dio ed Egli vi informerà a proposito delle cose sulle quali ora siete discordi.» (Corano 5,48)

Le differenze devono quindi non solo essere riconosciute come un mistero provvidenziale, ma anche come sprone per “gareggiare in opere buone”, superando le diffidenze e le derive esclusiviste a cui nessuna religione è immune, pretendendo di assolutizzare le rispettive forme di espressione del sacro, faticando a ricordare che esse non rappresentano un fine, ma piuttosto un mezzo di elevazione spirituale, un linguaggio per riferirsi a quanto le trascende.

Concludiamo con un’espressione di Muhyiddin ibn Arabi, lo Shaykh Al-Akbar, “il più grande dei Maestri” per noi musulmani:

«Se il fedele afferrasse il significato della frase “Il colore dell’acqua è il colore del recipiente che la contiene”, non interferirebbe con la fede degli altri uomini, ma troverebbe Dio in ogni forma e in ogni fede».