Il groviglio della guerra moderna e le vie di pace

Il groviglio della guerra moderna e le vie di pace
Le vicende drammatiche che stanno segnando l'attualità richiedono la conoscenza, ma anche il distacco, dai dettagli geopolitici e la necessità di interventi pacificatori in una prospettiva globale.
Gli osservatori europei che devono districarsi tra propagande e proclami, in cui i contorni del vero e del falso sono labili, spesso sono indotti alla passività e all'indifferenza. Queste reazioni, riguardo al contesto medio-orientale, sono causate da un groviglio di retaggi storici che hanno polarizzato ogni possibilità di dialogo e di riconoscimento.
Un comune spettatore passivo e gli esperti geopolitici si ritrovano disorientati e traditi dagli stessi strumenti politico-diplomatici, con il tempo corrotti a discapito di una possibile conciliazione pacifica.
Questo intricato groviglio si è evoluto secondo una trama di linee, sociali, culturali, economiche e politiche con intrecci differenti. Seguendo la traccia di ogni singola linea, liberi dai condizionamenti, ci si imbatte in quelle che prima erano linee di sopravvivenza e di incontro che ora sono state trasformate in delle barriere insormontabili.
La deviazione della storia, che porta allo stato di guerra e alla violenza incontrollata, intrappola nel razzismo e nella paura del diverso, cancellando ogni linea di demarcazione della convivenza umana.
Anche in Europa, anche da spettatori, è necessario arginare gli effetti catalizzatori della paura testimoniando un rinnovamento delle priorità dell'essere umano nel mondo e delle categorie delle relazioni internazionali verso la pace.
Il groviglio delle linee intrecciate
Il conflitto tra Israele e Palestina è un esempio evidente di questo groviglio che tende sempre più a contaminare il mondo verso dinamiche di chiusura e aggressione.
In questa instabilità si osserva come persino le linee di confine tra Stati e popoli risultino sempre più indefinite. Certo, nella storia i mutamenti dei confini, per mire espansionistiche o a seguito di accordi diplomatici, sono avvenuti in modo netto o artificioso a seconda delle influenze del tempo. Mai come in questo caso le frontiere, i margini da proteggere, i limiti delle influenze si sono tacitamente occultati e dissolti. Si arriva così al superamento cieco di limiti bellici tale da trasformare le linee di demarcazione in solchi tracciati da nemici. Non si riesce più nemmeno a comprendere quali siano i confini attuali di Israele, della Palestina e della Cisgiordania?
La linea divisiva e polarizzante, che è stata alimentata negli ultimi secoli, ha raggiunto un livello così logorante nelle relazioni internazionali e nel confronto politico che ha portato a una costante bestializzazione del nemico. Quando la propria esistenza è legittimata esclusivamente dalla contrapposizione o l'annientamento del diverso, viene meno il principio di autodeterminazione dei popoli. Specialmente in Medio-Oriente, a livello storico, le etnie, le lingue e le religioni non hanno costituito delle mere divisioni catalogabili a livello sociologico ma una pluralità ibrida di popoli uniti su un piano superiore a quello politico. Esiste infatti una linea di continuità di tradizioni identitarie che uniscono ebrei persiani, arabi cristiani e musulmani di origine indoeuropea.
Il groviglio viene alimentato dalla linea figurata del teatro diplomatico che, invece di costruire ponti, crea legami fittizi di dipendenza. Dopo decenni di convenzioni e trattati che hanno stabilito delle presunte tregue senza mai realizzare la pace, la diplomazia e il diritto internazionale appaiono oggi distanti dal mondo reale. I capi fazione sono i primi fautori di una guerra senza fine, intrappolati da zone di influenza e accordi commerciali, paralizzando la possibilità di una vera azione diplomatica.
Non si tratta di guerra tra popoli ma di crociate private di carattere tribale.
Storicamente la vera diplomazia è stata efficace quando i livelli di potere e interessi sono stati allineati anche verso la naturalizzazione dei rapporti e la condivisione di principi di umanità.
Nel luglio scorso, a seguito della proposta della Repubblica Francese e del Regno dell'Arabia Saudita, è stato siglato un documento congiunto con l'adesione di tutti i Paesi della Lega Araba e molteplici Paesi occidentali prevedendo il riconoscimento dei popoli e degli Stati di Israele e Palestina, affermando contestualmente la necessità di neutralizzazione del terrorismo, il rigetto della guerra e della violenza e il rispetto della dignità della vita di uomini, donne e bambini. United Nations High-Level International Conference - New York Declaration on the Peaceful Settlement of the Question of Palestine and the Implementation of the Two-State solution (29 July 2025).
Si tratta non solo di un esempio di cooperazione internazionale, che evita trappole ideologiche, ma anche di linee guida limpide per la costruzione di un modello pacificante volto alla naturale prosperità condivisa.
Una reazione lineare e intelligente
In una recente intervista il professor Jeffrey Sachs ha delineato tre possibili scenari per il futuro del mondo: un primo scenario è quello della collaborazione tra le grandi potenze grazie a un riassetto delle Nazioni Unite; il secondo scenario è quello di un mondo diviso in zone di influenza trincerate l'una rispetto alle altre; l'ultima possibilità prospettata da Sachs è quella di un caos disordinato e imprevedibile in cui le guerre, il cambiamento climatico e i conflitti geopolitici possono produrre effetti disastrosi. Sachs definisce quest'ultima "a real possibility". J. Sachs, Why Western Hegemony is Over, in South China Morning Post, 4 agosto 2025.
Il disordine globale, cui fa riferimento il professor Sachs, genera solo violenza, interferisce nelle relazioni tra gli Stati, offuscando l'intelligenza e la comunicazione.
La storia insegna l'urgenza di evitare scenari simili, specialmente quando le distanze nel paradigma contemporaneo si sono assottigliate e qualsiasi conflitto locale e disastro naturale comporta delle ripercussioni a livello globale.
Per un primo livello di analisi risulta centrale sviluppare la teoria "Greed and Grievance" di Paul Collier e Anke Hoeffler all'inizio degli anni 2000. I conflitti civili vengono alimentati da motivazioni economiche ("greed") e da motivazioni sociopolitiche ("grievance"). Nel primo scenario si trae vantaggio dalla guerra come strumento per migliorare la propria condizione economica, rovesciando con la forza il modello precedente verso un nuovo paradigma economico. L'esempio di "grievance" si focalizza quando le cause del conflitto sono di natura etnica, religiosa e sociale attraverso ingiustizie, discriminazioni e disuguaglianze di identità. Seppur sia utile distinguere e tracciare le origini dei conflitti, nel mondo odierno questi due fattori non sono esclusivi ma intrecciati tra loro ed infatti è stato contestato agli autori un approccio fin troppo olistico.
Nel conflitto mediorientale, la linea del "greed" è sicuramente una constante dove gli interessi tecnico-bellici e gli obbiettivi territoriali portano profitti tali da non ricercare una conclusione delle ostilità. Gli autori della teoria definiscono questa situazione come l'azione di un'impresa criminale che valuta il capitale bellico e le opportunità strategiche attraverso un'analisi costi-benefici.
Non mancano gli esempi storici del fattore "grievance" dove l'odio etnico e religioso o la repressione politica all'interno dello stato israeliano e nei "rapporti" con molteplici paesi confinanti hanno portato a conflitti e occupazioni militari ancora attive.
Per far fronte a una situazione così aggravata dunque non è sufficiente una semplice risposta legislativa e politica. Nei conflitti precedenti che si sono svolti in Medio-Oriente ci sono delle preziose indicazioni su grossolani errori da non ripetere.
Durante il conflitto in Iraq, gli Stati Uniti valutarono che un semplice cambio di regime, derivato dal rovesciamento del dittatore Saddam Hussein, sarebbe bastato a garantire un Iraq libero e che fungesse da modello per i Paesi limitrofi. La realtà ha però dimostrato che il vuoto di potere, derivato dalla politica americana, era degenerato in una serie di scontri settari che hanno devastato il Paese. Il progetto dell'allora amministrazione Bush, che aveva ricevuto le rimostranze del Segretario di Stato Colin Powell, non aveva speranze di concretizzarsi perché era stato trascurato il fattore più importante: la garanzia di sicurezza per la popolazione irachena, senza la quale ogni soluzione politica sarebbe impossibile da realizzare. D. Ross, How to Match Ends and Means in the Middle East. America Must Rediscover the Practice of Statecraft, in Foreign Affairs, 19 marzo 2025. Sembra che nel conflitto in atto in Palestina si stia reiterando lo stesso errore perché non si sta operando nella direzione di garantire l'incolumità della popolazione palestinese e di quella israeliana per il presente e per il futuro.
La guerra tra Israele e Palestina e tutti gli altri conflitti non si risolveranno esclusivamente con un semplice accordo ma con atti intelligenti sostenuti da una sincera intenzione di rinnovamento dei paradigmi politici. A ciò si collega la necessità di curare uno dei vizi endemici della diplomazia occidentale: il double standard. In un recente articolo, apparso sul Financial Times, il professor H.A. Hellyer argomenta che la formalizzazione di uno Stato palestinese, pur conforme ai dettami del diritto internazionale, rischia di essere uno strumento vuoto e ingannevole, se lo si interpreta come l'elemento esclusivo che farà cessare le ostilità. Scrive Hellyer: "I leader europei hanno dimostrato di essere disposti a imporre sanzioni a funzionari di Russia, Iran e Siria. Rifiutarsi di farlo nei confronti di Israele ha minato sia il diritto che la credibilità della politica estera europea nel mondo. Senza misure di questo tipo, il riconoscimento della Palestina rischia di diventare una finzione giuridica piuttosto che un catalizzatore di cambiamento". H.A. Hellyer, The UK and Europe must take action, not stick with mere symbolic gestures, in Financial Times, 1 agosto 2025.
La vulgata dell'impossibilità di agire, sul piano pratico, e la speculazione fine a stessa, su quello teorico, vanno ribaltati per restituire all'Europa l'opportunità di ritrovare il proprio ruolo e per porre un argine alla barbarie dei conflitti che si stanno espandendo in modo preoccupante. Esistono degli ambiti concreti di intervento che consentono degli sviluppi in ottica futura.
A seguito degli inviti a emigrare da Gaza City, il Patriarcato Greco Ortodosso e il Patriarcato Latino di Gerusalemme hanno dichiarato congiuntamente di voler declinare questa offerta a fronte della necessità di rispettare il dovere di tutela degli ammalati e dei bisognosi per i quali un'emigrazione verso sud equivarrebbe a una condanna a morte. Dichiarazione congiunta del Patriarcato Greco Ortodosso di Gerusalemme e del Patriarcato Latino di Gerusalemme, 26 agosto 2025. In questo contesto l'Europa può dare un apporto fondamentale. Proteggere la popolazione non significa solo provvedere all’incolumità fisica degli uomini, delle donne e degli anziani, ma significa anche tutelare le sensibilità e le specificità di un popolo. Alcuni esempi storici dimostrano che questo è possibile.
Dopo la rovina e la desolazione che seguirono il conflitto in Kosovo, il contingente italiano, che faceva parte della missione KFOR, ha protetto siti sensibili, tra cui centri storici e luoghi religiosi, la cui sicurezza era una priorità per l'inizio del processo di pace. Anche nel caso del conflitto palestinese la protezione di sinagoghe chiese e moschee dalla barbarie della distruzione e del veleno dell'estremismo è prioritaria e imprescindibile sia relativamente al presente che nella prospettiva futura della pace.
Un altro settore in cui l'Europa può fornire un contributo prezioso è quello della ricostruzione, che non è solo edilizia. Si è così distratti, per attrazione o per repulsione, dai progetti avveniristici e mirabolanti di resort e strutture turistiche sulle macerie di Gaza, che non si comprende che la vera ricostruzione sarà quella delle coscienze e dell'educazione. Senza questa opera tutto il resto sarà fragile e perituro. Bisognerà evitare che i giovani palestinesi e israeliani crescano nell'odio, che ragionino per schemi oppositivi e che coltivino rivendicazioni e risentimenti. Sarà dunque fondamentale l'educazione che, in quanto tale, è sempre rispettosa della natura dei popoli, delle loro esigenze e delle loro aspirazioni più alte. Non, dunque, un'educazione all'occidentale, ma facilitata dall'Europa. A ciò è connessa l'importanza della formazione di una nuova classe dirigente locale, lontana dagli estremismi e dalle manipolazioni, aperta a un dialogo autentico e a una prospettiva di speranza. Se la diplomazia saprà veicolare questo processo, mentre curerà alcune ferite, forse riuscirà al tempo stesso a guarire da alcune cecità che hanno animato la politica degli ultimi tempi.
Le guerre che imperversano sono scatenate dalla miopia intellettuale e, a loro volta, non generano solo effetti devastanti su coloro che le combattono e le subiscono ma anche su chi le osserva perché annebbiano l'intelligenza e intrappolano nell'immobilismo o nell'iperattivismo sterile. Nel mondo globalizzato non ci si salva da soli ed è necessario un dialogo che superi le logiche della competizione, della sopraffazione e che cerchi, nel rispetto delle diverse sensibilità, di realizzare un modello in cui si possa sostenere il benessere non solo economico-sociale dei cittadini. Nel corso della sua storia l'Europa ha saputo incarnare i caratteri di una civiltà brillante quando ha saputo percorrere la via del dialogo, della cultura e della diplomazia.
Non c'è il tempo di dipanare il groviglio delle linee che si sono annodate nella guerra di Gaza. Non c'è più spazio per l'illusione di percorrere le linee immaginarie, che rappresentano le false soluzioni e le favolose promesse che assicurano cure facili e immediate a tutti i mali del mondo, senza in realtà condurre da nessuna parte. La narrazione non può sostituire la realtà ma deve adeguarsi ad essa e restituire il senso dell'urgenza di un contesto in cui ciò che deve necessariamente rinnovarsi è la mentalità, prima che la situazione diventi irrimediabile e gli effetti producano un caos incontrollato.
La politica e la cittadinanza devono cercare un rinnovamento che aiuti a superare il paradigma della crescita economica costante e della lotta per la supremazia verso un modello in cui la cultura, il dialogo e l'orientamento verso il Bene siano i cardini sui quali elevarsi. Solo a partire da ciò l'Europa potrà dare un contributo efficace alla sicurezza di Israele, della Palestina e di se stessa.