Note sull'illuminismo maimonideo da una prospettiva Burkeana

Note sull'illuminismo maimonideo da una prospettiva Burkeana

Può una persona moderna e illuminata prendere sul serio gli insegnamenti filosofico-religiosi di un pensatore medievale come Maimonide (1135-1204)? La risposta dipenderà da ciò che si intende per illuminismo. Qui vogliamo offrire alcuni suggerimenti riguardo il carattere dell'illuminismo medievale, come rappresentato da Maimonide, e il suo rapporto con l'illuminismo nel senso in cui viene inteso oggi.

Quello che oggi si chiama comunemente illuminismo fu un movimento dei secoli XVII e XVIII che emerse tramite una deliberata rottura con la filosofia e la religione medievali, con ciò che Thomas Hobbes condannò come "il regno delle tenebre". Grazie al successo di questo movimento, gli occidentali moderni godono di una libertà e di una sicurezza, in particolare riguardo la religione, che è senza precedenti. Dagli orrori della lotta religiosa ("l'infame" di Voltaire) si è passati alla toleranza e alla pace. I filosofi e gli scienziati, come voleva Spinoza, possono pensare ciò che vogliono e dire ciò che pensano senza temere la persecuzione. Come voleva Locke, ognuno è libero di adorare Dio e di cercare la salute della propria anima a modo suo, secondo le proprie opinioni.

Nessuna persona di buon senso potrebbe mancare di essere grato per questa libertà o potrebbe voler sacrificarla sull'altare di una nostalgia romantica e sconsiderata per la società pre-moderna. Però non possiamo ignorare il fatto che l'uomo moderno occidentale appare sempre più a disagio nella sua libertà, sempre più incerto su come utilizzarla. Come ha osservato un teologo liberale:

«Ora che il sé è sempre più libero di essere qualsiasi cosa, perché debba essere contento di essere qualcosa di specifico è diventato un problema tormentoso. Gli psicoterapisti riferiscono che invece di vedere pazienti appesantiti da un senso di colpa morboso, più spesso curano persone depresse perché credono che la loro vita non abbia nessun significato» (Eugene Borowitz, Renewing the Covenant: A Theology for the Postmodern Jew [Jewish Publication Society, 1991], p. 21).

La perdita di significato è la conseguenza di un'incertezza fondamentale riguardo il giusto modo di vivere e gli scopi per cui si dovrebbe vivere. A quanto pare, in tali questioni la maggior parte di noi ha effettivamente bisogno di una guida. Ma se chiediamo una guida alle autorità spirituali del nostro tempo, ci rispondono: «Vivete come individui liberi, autonomi e creativi!» una risposta che ci lascia perplessi come prima.

Il nostro imbarazzo fu, per così dire, previsto da Edmund Burke nelle sue Riflessioni sulla rivoluzione in Francia (1790). Per capire la posizione di Burke è utile confrontarla con quella di Immanuel Kant nel suo saggio, Cos'è l'illuminismo? (1784). Secondo Kant, l'illuminismo significa che l'uomo acquisisce la capacità di ragionare per se stesso anziché permettere ad altri di ragionare per lui. L'illuminismo della massa (e non solo di intelletti eccezionali) è non solo possibile ma quasi inevitabile, a condizione che agli uomini venga fornita la libertà di utilizzare la propria ragione e che vengano incorraggiati di farlo. Il progresso nell'illuminismo è in effetti il destino naturale della razza umana. Tale progresso è desiderabile in sé e anche perché è la condizione del progresso in materie politico-sociali e religiose. Particolarmente importante è il ragionare per se stesso nella religione, perché la subordinazione intellettuale in questo campo è quella più dannosa. Il saggio passionale di Kant segna un alta marea della fiducia degli illuministi nella capacità degli uomini di ragionare e nel potere della ragione di trasformare la condizione umana per il meglio.

Burke invece sosteneva che tale fiducia fosse eccessiva e pericolosa. La ragione nella maggior parte degli uomini, secondo lui, è naturalmente debole; quindi è meglio per loro fidarsi meno nelle proprie opinioni che in quelle che hanno ereditato dagli avi---opinioni che Burke non esita di chiamare "antichi pregiudizi". Contrapponendo il conservatorismo inglese al radicalismo francese, scrive:

«invece di distruggerli, molti dei nostri pensatori ["men of speculation"] impiegano la propria sagacia per scoprire la sapienza latente di cui sono pregni i pregiudizi. Se vi trovano quanto cercano, e raramente falliscono, ritengono sia più saggio mantenere il pregiudizio, con la sua ragione inclusa, che non buttare via il mantello del pregiudizio e lasciare null'altro che la nuda ragione; perchè il pregiudizio, con la sua ragione, possiede un motore che può dare azione a quella ragione e un elemento affettivo tale da conferire ad essa capacità di durata. Il pregiudizio è di facile applicazione nei casi di emergenza giacché impegna preventivamente la mente in un fluire stabile di sapienza e di virtù, senza lasciare l'uomo, quando deve decidere, in uno stato di esitazione---scettico, confuso e irrisoluto» (tr. Marco Respinti, con modifiche [anche nelle citazioni di sotto]).

La posizione di Burke, il lettore avrà osservato, è lontano dall'essere irrazionalista o oscurantista. In primo luogo, Burke indica che non tutti gli antiche pregiudizi sono degni di essere conservati: in alcuni (anche se non molti) non c'è una sapienza latente da scoprire. Più in generale, la sua difesa del pregiudizio è in realtà una difesa della ragione contro un attacco imprudente ai sostegni più efficaci della ragione. Inoltre l'appello di Burke alla sapienza ereditata non esclude la possibilità del progresso. Come spiega:

«L'idea di eredità fornisce un principio sicuro di conservazione e di trasmissione, senza affatto escludere quello di miglioramento. Lascia liberi di acquisire, ma protegge quanto acquisito».

Si noti anche che Burke distingue fra due parti della società: una certa parte "istruita e riflessiva", e coloro che sono "meno indagatori". Gli uomini della prima parte, dice Burke attentamente, «formano le loro opinioni sulle basi sulle quali le formano» mentre quelli altri vivono per forza di fiducia e sono destinati a ricevere le loro opinioni da un'autorità. Dalla collaborazione armoniosa fra entrambi i generi viene il benessere della società civile, quella società che Dio ha voluto come strumento per la perfezione delle nostre nature.

Credo che la giudiziosa difesa del pregiudizio da parte di Burke possa aiutarci a capire e a prendere sul serio il progetto di un pensatore medievale come Maimonide. Va da sé che Maimonide difende, innanzitutto, non il pregiudizio bensì la verità della Legge Divina, della Torah. Ma per conoscere veramente quella verità serve, secondo Maimonide, uno studio approfondito delle scienze, comprese la scienza naturale e la "scienza divina" ovvero la metafisica; e questo studio non è alla portata della maggioranza degli uomini, sia per natura sia per le loro circostanze (cfr. il commento di Maimonide alla Mishnà, Chagigah 2.1 e il suo Mishneh Torà, hilchot yesodei ha-Torà [«Leggi che riguardano i fondamenti della Torà»], 2.11-12, 4.10-13). Perciò c'è bisogno di quello che possiamo chiamare non ingiustamente un pregiudizio, ossia un pregiudizio a favore dell'autorità tradizionale, la quale insegna certe verità (per esempio l'unità e l'incorporealità di Dio) senza dimostrarle (vedi Maimonide, Guida dei perplessi, 1.35).

Al-Farabi, pensatore mussulmano molto ammirato da Maimonide, spiega il problema in questi termini: da un lato, «la filosofia è quella che fornisce le dimostrazioni di tutto quanto è contenuto nella religione virtuosa [cioè la religione che mira alla felicità vera anziché quella immaginaria]». D'altro canto, «la religione virtuosa non è riservata ai soli filosofi» ma anche e soprattutto alla maggioranza non filosofica che possono essere portati ad accettare gli insegnamenti di quella religione solo tramite argomenti non dimostrativi (per esempio, retorici) (Al-Farabi, Libro della religione, cap. 5-6, tr. Massimo Campanini). Maimonide avanza sostanzialmente la stessa tesi: «i contenuti dianoetici [razionali] della Legge sono ricevuti per tradizione e non dimostrati [nella Legge stessa] per via speculativa»; piuttosto c'è una certa sapienza, diversa dalla Legge, che fornisce la dimostrazione. Questa sapienza appare identica a ciò che «i filosofi antichi [cioè i greci] e moderni [cioè i mussulmani]» chiamano «la vera perfezione umana» la quale «è il conseguimento delle virtù dianoetiche [razionali], ossia il fatto di concepire degli intelligibili che insegnano opinioni corrette in metafisica» (Guida dei perplessi, 3.54, tr. Mauro Zonta).

Quello che abbiamo chiamato il pregiudizio a favore dell'autorità tradizionale, della Legge, è utile per trasmettere verità non solo teoriche ma anche morali. Secondo Maimonide, le virtù morali sono indispensabili in due modi: (1) come preparazione per le virtù razionali (un uomo non può ricercare la verità con tutto il cuore se non ha controllato i suoi desideri del piacere, della ricchezza e dell'onore) e (2) per conservare la società politica, senza la quale l'uomo non può vivere, o vivere bene (Guida dei perplessi, 1.34, 2.40, 3.27). Nei suoi Otto Capitoli, che fanno parte del Commento alla Mishnà, Maimonide afferma che lo scopo principale della maggior parte dei commandamenti della Legge è, appunto, quello di inculcare le virtù morali (Otto Capitoli, cap. 4). Ma la Legge non fornisce una spiegazione piena e esplicita delle virtù morali in quanto tali. Quella spiegazione viene fornita dallo stesso Maimonide, in gran parte in base a quello che ha imparato dai filosofi, perché bisogna "ascoltare la verità da chiunque l'abbia detta" (Otto Capitoli, Introduzione). (Questi filosofi, che Maimonide si astiene da nominare in questo contesto, sarebbero, in particolare, Aristotele e al-Farabi.) Maimonide si impegna comunque ad armonizzare la dottrina filosofica delle virtù, per quanto possibile, con gli insegnamenti della Bibbia e dei Saggi ebrei. E altrove (per esempio, Guida dei perplessi, 1.71) afferma che nei tempi antichi le scienze filosofiche furono possedute dagli stessi ebrei (poi perdute a causa dell'esilio). In tal modo fa appello non solo alla ragione ma anche all'elemento affettivo dei suoi lettori, che non rimarranno (nelle parole di Burke) scettici, confusi e irrisoluti, e che riceveranno quello che è per loro un nuovo acquisto come fosse qualcosa di antico e familiare, e quindi da conservare con cura.

Suggeriamo, quindi, che per Maimonide, a seguito di al-Farabi (che segue a sua volta Platone e Aristotele), l'illuminismo è in un senso impossibile e in un altro senso possibile. L'illuminismo universale del tipo auspicato da Kant è impossibile. Ma un illuminismo che tenga conto delle disuguaglianze umane, alcune delle quali sono naturali e quindi immutabili, è possibile e desiderabile. Questo secondo tipo di illuminismo trasmette una versione della verità a tutti, mentre invita i pochi qualificati a intraprendere gli ardui studi che portano alla conoscenza genuina della verità. Perché siamo comandati ad amare Dio (Deuteronomio 6:5) e «questo amore non si verifica se non con la percezione di tutta l'esistenza per quello che è, e la riflessione sulla sapienza esercitata da Dio in essa» (Guida dei perplessi, 3.28). Un illuminismo maimonideo oggi non implicherebbe nessuna limitazione formale alla libertà politica e religiosa ma piuttosto governerebbe l'atteggiamento delle persone "riflessive" rispetto al "pregiudizio".

Letture consigliate di approfondimento:

Maimonide, Gli otto capitoli, a cura di Giuseppe Laras, Giuntina, 2001. Più accurata la versione inglese, Eight Chapters in Ethical Writings of Maimonides, a cura di Raymond Weiss and Charles Butterworth, Dover, 1983.

Maimonide, La Guida dei perplessi, a cura di Mauro Zonta, UTET, 2013.

Al-Farabi, Libro della religione, Il conseguimento della felicità e Gli aforismi dell'uomo di stato in al-Farabi, Scritti politici, a cura di Massimo Campanini, UTET, 2007.

Ralph Lerner, Maimonides' Empire of Light: Popular Enlightenment in an Age of Belief, University of Chicago Press, 2000.

Leo Strauss, "The Literary Character of the Guide for the Perplexed" in Strauss, Persecution and the Art of Writing, University of Chicago Press, 1988 [1952].

Raymond Weiss, Maimonides' Ethics: The Encounter of Philosophic and Religious Morality, University of Chicago Press, 1991.