India e Pakistan, lo scontro dell'arroganza e della dimenticanza

India e Pakistan, lo scontro dell'arroganza e della dimenticanza

La crescente tensione, lo scontro e le minacce iperboliche tra India e Pakistan sanciscono ulteriormente che lo stato in cui si trova attualmente il mondo è quello della guerra e del disordine. Gli analisti si cimentano nell'inventario degli arsenali bellici dei due Paesi, nelle indagini sulle cause contingenti del conflitto e nel tentativo di delineare scenari e prospettive strategiche.

Lo scopo di questo articolo è quello di mostrare come la crescente tensione tra India e Pakistan non è qualcosa di estraneo all'Europa ma rappresenta un ulteriore segno di caos che dovrebbe ammonire alla necessaria urgenza di un cambio di prospettiva prima che lo stato delle cose degeneri ulteriormente in modo imprevedibile e pericoloso.

Un interessante articolo di Emanuele Rossi pubblicato su Formiche spiega come questa "faglia" tra India e Pakistan rischi di generare degli effetti a catena destabilizzanti su più fronti: profughi e rifugiati, sabotaggio di risorse idriche, violenza crescente, espansione del conflitto dal livello locale a quello macroregionale e globale con conseguenze anche per l'Europa. L'altro elemento evidenziato da Emanuele Rossi è che l'attacco indiano sancisce un cambio di dialettica: l'India, cercando di accreditarsi come potenza internazionale affidabile e credibile, vuole dimostrare di essere in grado di attaccare militarmente in modo "controllato", esercitando cioè una violenza centellinata e giustificando l'uso della forza con la necessità di attaccare delle postazioni controllate da terroristi.

Di fronte a questo scenario ci sono due pericoli: Il primo è quello di assuefarsi alle guerre che sempre più numerose stanno proliferando in varie aree del mondo al punto da prevedere la possibilità di una violenza "controllata". Giocare alla guerra o usarla come strumento di potenza è pericoloso proprio perché non si può pensare di controllare la violenza e il disordine che sono per definizione irrazionali e imprevedibili.

Il secondo pericolo è quello di cedere a una pigra narrazione che contrappone "buoni" e "terroristi" così da normalizzare qualunque tipo di attacco militare mentre ognuna delle parti in causa rivendica le proprie ragioni e il proprio diritto alla vendetta e alla rappresaglia.

La violenza alla quale si è arrivati, non solo al confine tra India e Pakistan, ha certamente delle spiegazioni storiche e contingenti ma, se non si segue una prospettiva più elevata, si rischia di fermarsi alla sola analisi senza rendersi conto che la vera radice di questi pericolosi scontri è nel disorientamento intellettuale e nella mentalità offuscata dall'arroganza e dalla pretesa di dominio e autoaffermazione.

Si dice comunemente che all'origine dei dissidi tra India e Pakistan vi sia l'artificiosa spartizione dei territori operata dal colonialismo occidentale. Nel 1947 infatti India, Pakistan e Bangladesh, originariamente facenti parte di un unico corpus territoriale vengono arbitrariamente smembrate su base religiosa: a Est e a Ovest dell'India vengono creati due stati la cui popolazione era a maggioranza musulmana mentre la novella India viene creata sulla base di una popolazione indù. L'inizio delle tensioni tra popoli che hanno condiviso secoli di storia non è però dovuta a una presunta incompatibilità tra la forma tradizionale dell'Induismo e quella dell'Islam. Al contrario, la prepotenza di piegare un modello millenario all'ideologia artificiale dello Stato-nazione e alle mire del colonialismo ha imposto una cortina che ha offuscato la possibilità di comune orientamento verso i principi e ha costretto gli sguardi a focalizzarsi sulle differenze piuttosto che sulla comune Origine di queste. Non ha dunque alcun senso cercare rivincite per compensare errori o torti del passato e del presente, presunti o reali che siano perché si rischia di innescare una faida sempre più violenta.

La storia dell'India è stata infatti un modello di concordia delle differenze. Ne è un esempio lo splendore dell'impero moghul, che, a partire dal XV secolo, durerà per oltre 300 anni. La dinastia moghul discendeva per linea diretta da Timur, che in Occidente è noto come Tamerlano, e amministrava un territorio corrispondente agli odierni Pakistan, India, Bangladesh, Nepal, Iran e Tagikistan. Il contesto storico, le popolazioni, le architetture, gli usi e i costumi di queste regioni sono molto diversi rispetto a quelle occidentali e non si può dunque pretendere di ridurle alle categorie di pensiero proprie dell'Occidente contemporaneo. Durante l'impero moghul si realizza il governo di una dinastia musulmana che amministra un grande territorio in cui vivono anche numerosi indù. Oggi potrebbe sembrare qualcosa di incredibile, ma quel che ne deriva è una convivenza di popoli diversi tra loro per forma religiosa, per eredità storica e persino per tratti somatici. I sovrani e i sapienti di questo impero hanno sempre richiamato all'Unicità e all'Unità di Dio che trascende le differenti forme religiose e hanno governato senza alcun tipo di sincretismo popoli diversi che coesistevano avendo ben presente la priorità della ricerca dell'Unità nella pluralità e nella diversità.

india pakistan islam e induismo

Il principe musulmano Muhammad Dārā Šikōh scrive un'opera intitolata La congiunzione dei due oceani. Si tratta di un'immagine coranica, quella dei due mari che si incontrano senza mescolarsi. In quest'opera Dārā Šikōh non si dedica semplicemente alla comparazione religiosa tra Induismo e Islam ma cerca di risalire, attraverso i due mari, al punto di contatto in cui non vi è mescolanza ma c'è il simbolo dell'Unità, per arrivare Alla Quale bisogna attraversare i mari, ognuno il proprio, senza naufragare nel tentativo di sommergere l'altro mare o affogare per l'incapacità di vedere la meta finale a causa della dimenticanza dello scopo del viaggio.

Dopo aver interrogato sapienti indù e musulmani Dārā Šikōh giunge a questa conclusione:

«egli non trovò differenza alcuna, fuorché divergenze lessicali, nel loro modo di percepire e comprendere il Vero».

Quello che sta accadendo al confine tra India e Pakistan non è qualcosa di estraneo all'Occidente. All'inizio del XX secolo colla l'Impero ottomano molto più europeo di quanto non siamo abituati a pensare, un impero in cui per secoli avevano convissuto ebrei, cristiani e musulmani e i più disparati popoli dell'Europa Centro-orientale, dei Balcani, dell'Armenia, dell'Africa settentrionale, della penisola arabica e dell'Asia centrale. Non era una convivenza basata su un accordo sociale ma su un orientamento spirituale condiviso nelle differenze. Quando si infiltrano il nazionalismo, il materialismo e si impone l'illusione di doversi adeguare agli standard imposti dalle filosofie politiche e ideologiche europee, l'impero dimentica la sua ragion d'essere. Iniziano scontri, persecuzioni, rivendicazioni partitiche, imposizioni linguistiche e religiose, esodi, massacri e deportazioni.

La tradizione indù indica tra i segni del caos e della generazione la rivolta degli Kshatriya contro i Brahmani. Quando il "potere" si ribella all'"autorità", cioè quando la regalità è insubordinata rispetto al sacerdozio si assiste alla dimenticanza del Principio che provoca un'arroganza sempre più violenta e pericolosa. Sovrani e soldati infatti derivano la natura e l'essenza della loro funzione dall'autorità spirituale. Ribellandosi allo Spirito, tramutano la cavalleria in esercizio della forza brutale e l'amministrazione politica in una ricerca di "potenza". La fisica si sostituisce alla metafisica e la ragione volta le spalle alla luce dell'Intelletto vedendo davanti a sé solo la propria ombra. Anche quando il potere politico assume la parvenza solo formale di una religiosità non lo fa per ricercare la Signoria dello Spirito ma per perseguire i propri scopi. Lo si nota nell'India di questi ultimi anni in cui la politica cerca di uniformare la ricchezza della varietà della popolazione dal punto di vista religioso e linguistico per gareggiare nella competizione internazionale. Si fa così una parodia dell'eredità tradizionale al punto che la religione invece di re-legere – cioè di ricollegare – non fa altro che relegare, cioè escludere e viene manipolata per contrapporsi contro gli altri. Se ci pensiamo bene, non è qualcosa di limitato alla sola India ma riguarda tutti i popoli in questa delicata fase che il mondo sta attraversando.

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Per reagire in modo intellettuale a questo stato non bastano gli appelli ingenui alla non belligeranza senza che prima si siano create le condizioni di pace. Più pericoloso ancora sarebbe incitare ulteriormente le contrapposizioni perché il disordine distrugge se stesso e provoca effetti sempre più funesti.

Bisogna recuperare l'eredità di quei sapienti che hanno coltivato e ritrasmesso la concordia, la speranza e il ricordo dei principi e hanno insegnato che, se la ragione si arroga l'indipendenza dall'Intelletto, allora prevalgono la forza animalesca e l'irrazionalità. Bisogna rendersi conto dell'urgenza del momento che vede conflitti sempre più diffusi e con un'intensità sempre crescente. Bisogna abbandonare l'arroganza di voler cambiare il mondo senza prima cambiare se stessi e bisogna cercare la guida di una Ragione superiore abbandonando le distrazioni e le velleità irrazionali prima che sia troppo tardi.