Per una fraternità interreligiosa tra credenti nello “spazio laboratorio” del Mediterraneo
Alcune riflessioni in margine al saggio di G. De Simone e C. Monge: “La misura mediterranea dell’umano”, coll. Arca, Castelvecchi, Roma 2024
Claudio Monge: Frate dell’Ordine dei Frati Predicatori (Domenicani), è direttore del Centro Studi DoSt-I (Dominicans Study Institute) di Istanbul. Dottore in Teologia Fondamentale, specialità Teologia delle Religioni, all’Università di Strasburgo (Francia), dove ha conseguito anche un master in Lingua e cultura turco-ottomana. È professore di Teologia fondamentale e saggista, dal 2014 consultore del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso.
La fraternità appare come la questione del presente: lo percepisce in particolare chi paga più duramente le conseguenze di una marginalizzazione economico-sociale. Ma parlare di vocazione alla fraternità significa superarne la pretesa evidenza e avviare un cammino di formazione ed educazione: un lungo lavoro culturale, oltre che teologico e religioso. La storia recente è stata teatro di accese battaglie, culturali e politiche in nome della solidarietà, ma se una società fraterna è anche certamente solidale, il contrario non è sempre vero. È la gratuità a fare la differenza, il principio anti-economico per eccellenza e quindi rivoluzionario rispetto al progetto della modernità. Dove manca la gratuità, non può esserci fraternità. Ma è falso affermare che il richiamo alla fraternità universale annulli tutte le distinzioni religiose e culturali in nome di una generica umanità che affratellerebbe naturalmente gli esseri, sulla base di istanze puramente sociali. Al contrario, porre la fraternità al centro della riflessione interreligiosa significa declinare il tema del dialogo passandolo al vaglio dell’antropologia. In altre parole, la sfida diventa quella di aprirsi a una nuova esperienza di fede nel contesto della pluralità e nel riconoscimento e nella cura per quanto è autenticamente umano. Un «nuovo umanesimo» non può che essere basato sulla capacità di integrare, la capacità di dialogare e la capacità di generare, questo superando una visione identitaria delle appartenenze religiose, soffocate dall’alimentazione delle paure umane più che ancorate sul respiro di un Dio che non conosce barriere, la cui visione non può essere settaria ma è universale. A Sua immagine, le culture non vivono solo la loro propria esperienza di Dio, del mondo e dell’uomo, ma si devono confrontare con esperienze differenti, confronto che può portare a nuove forme feconde di sintesi. Queste considerazioni implicano una ridefinizione dei confini come soglie, ossia come zone di transizione. La questione non è più quella di riportare l’altro alla propria verità, di prenderlo in ostaggio sotto la tenda delle proprie certezze, ma di comprendere qual è il senso, nell’economia della salvezza, della sua ricerca, partendo dal riconoscimento della paternità universale di Dio, che ci rende con-creature e perciò fratelli e sorelle tra di noi. Siamo convinti che il Mediterraneo, diventato oggi l’epicentro di una tragedia umana, frutto avvelenato di sperequazioni globali inaccettabili e di ingiustizie strutturali, possa al contrario essere riabilitato come laboratorio privilegiato di una nuova fraternità tra i popoli. Ora, non è alla sola cultura europea che può essere ricondotto l’umanesimo mediterraneo. Occidente e Oriente si incontrano sulle rive del Mediterraneo e anche l’Africa con il suo patrimonio di saggezza ne è parte. Contro i facili riduzionismi, è la “misura smisurata” dell’incontro e dell’essere irriducibilmente in relazione che questo mare non smette di raccontare. La “misura smisurata” del riconoscimento reciproco, dell’ospitalità, dello scambio di doni, di un’unità che fiorisce nella diversità. Se facciamo riferimento ai testi rivelati, patrimonio comune delle religioni abramitiche, fu Dio stesso a mandare a dire al principe-oppressore in terra d’Egitto: « Lascia partire il mio popolo »! È Lui che stabilisce l’unico lecito, universale Codice: che di Dio è la terra per cui ogni creatura ha diritto di camminarvi sopra e di condividerne fraternamente i frutti. Di vivere, di muoversi, di partire per trovare uno spazio dove fissare una tenda, coltivare un giardino, costruire cortili dove possano giocare i bambini.
Continuando nei riferimenti scritturistici, nel primo capitolo del libro dell’Esodo, della tradizione giudeo-cristiana, spiccano pochi versetti inondati di “Splendore” e “Bellezza” (in ebraico: “Sifra” e “Pua”). Si tratta, non casualmente, anche dei nomi propri di due levatrici egiziane che, invece di ubbidire al decreto reale che ordinava di soffocare sul nascere i bambini maschi delle donne ebree, fanno silenziosa obiezione di coscienza, consegnando uno di essi, il futuro Mosé, e cioè il “Salvato dalle acque”, al viaggio della vita. Un vero pluralismo può essere fecondo solo in un quadro di valori fondamentali condivisi. Ora il valore non è una “nozione etica originaria”, poiché presuppone il bene, cioè la ragione per cui qualcosa ha rilevanza per qualcuno. Tutti i beni si trasformano in valori quando entrano a far parte di pratiche sociali in vista della loro attuazione. Ma, in qualche modo, è sempre in gioco la realizzazione della persona umana, perché indipendentemente da essa, un valore non diventa tale per semplice decreto! La necessità di una nuova antropologia, che esca da un antropocentrismo autoreferenziale, implica affermare l’homo ethicus contestando la prospettiva dell’homo oeconomicus. Il primo è necessariamente in relazione, il secondo è colui che viene definito “egoista razionale”, che decide cioè di entrare in una relazione inter-soggettiva solamente quando può trarne profitto personale e non perché sarebbe incapace di pensarsi senza l’altro, rispetto al quale è indifferente. La sfida allora è la riscoperta del soggetto come persona, rimesso cioè in una rete di rapporti e legami e non solo considerato nella pura assolutezza del singolo. Ancora una volta, in questa prospettiva il problema è non solo ripensare genericamente le religioni al servizio della pace, quando più spesso sembrano giustificare la violenza, ma dare voce a diversi modi di costruire l’umano al cuore di una vita in relazione con la trascendenza.
È indiscutibile il fatto che ci sia una difficoltà a strutturare questo nuovo umanesimo al cuore della modernità secolarizzata. Ma a rendere possibile l’incontro tra le religioni come fermento di fraternità non è soltanto la condivisione della cura dello spazio. Quello che le unisce va ricercato in ciò che ne costituisce il nucleo più profondo. È l’esperienza di Dio come tale, che può essere ritrovata e vissuta in una dimensione di radicale apertura e ospitalità. Facciamo qui riferimento ad una dimensione mistica, da non intendersi soltanto nelle sue espressioni più alte ma anche a quella che potremmo chiamare “mistica elementare”: l’esperienza intima e profonda di Dio e della vita alla presenza di Dio. C’è un modo di vivere la fede che è proprio dei contesti mediterranei pur nella loro diversità e che è trasversale alle differenti tradizioni religiose. Esso si caratterizza prima di tutto come capacità di tenere insieme una complessità di elementi in una dialettica non esclusiva ma inclusiva, in un’incessante volontà di comunione, pur nella irrisolta tensione tra individuo e comunità, tra memoria e creatività, tra unità e pluralità, tra uomo e creato, tra terra e mare, tra le tenebre del dramma e la solarità della festa. È una fede il cui linguaggio simbolico implica un forte coinvolgimento della sensorialità, della corporeità investita alla radice dalla relazione con Dio. È poi una fede che si esprime in un forte senso di comunità, figlia di una socialità che è retaggio di forti legami familiari e parentali e che rimanda a una ritualità che aggrega e disegna una comune identità. Ma ciò che più caratterizza la mediterraneità, e che traspare anche dalla forma che la fede assume in queste terre, è il senso dell’ospitalità. Quest’accoglienza dell’altro, che nasce dalla fede, ha dato luogo nel tempo anche alle tante esperienze di accoglienza dello straniero e di convivenza pacifica tra persone di fede diversa che hanno visto, e ancora vedono, coinvolta la gente comune nella semplicità dei gesti quotidiani, al di là di ogni forzata, voluta contrapposizione ideologica e politica. Certo, molto cammino è ancora da fare. Nella vera apertura ospitale, si è portati, grazie alla relazione all’altro, a interrogare maggiormente il proprio percorso di fede e a perfezionare la propria identità credente. Ecco perché quest’accoglienza non è un semplice gesto di profonda umanità che salva dalla chiusura disumanizzante: è un gesto di fede. Questo non è solo evidente nella tradizione giudeo-cristiana e nell’associazione del comandamento dell’amore a Dio con quello dell’amore al prossimo. In tutti i percorsi di fede l’accoglienza diventa esperienza essenziale e interiore della presenza di Dio stesso, oltre che l’espressione dell’accoglienza di un Dio che allarga la sua misericordia provvidente a tutto il genere umano. Questa disposizione deve essere considerata anche come un’incitazione potente a cambiare il nostro rapporto col mondo e il nostro modo di abitarlo soprattutto quando è in preda alla violenza, compresa quella che, talvolta, si esprime con l’abuso di potere degli stessi uomini di religione o in nome di Dio! Questa è oggi anche una sfida alla credibilità stessa della proposta religiosa, un compito urgente! Com’è possibile, nelle condizioni attuali, preservare una grammatica dell’umano che favorisca il dialogo fra le differenze? Prima di tutto abbandonando una postura competitiva che si declina in termini di lotta di potere e di delimitazione di confini. Il vero dialogo si instaura tra credenti capaci di rimettere al centro una fede che coincide con una “buona notizia per l’umanità” (il termine euanghellion, radice semantica di Vangelo). Non una visione ingenua o idealistica, quanto piuttosto la consapevolezza di dover annunciare la forza della vita e dell’amore che vincono la morte accettando di stare, di sostare sull’abisso della sofferenza, attraversando e denunciando il male strutturale. Rimettere al centro l’esperienza vuol dire, allora, anche ritrovare un’azione, o meglio un atteggiamento interiore, che è di fondamentale importanza per la teologia e troppo a lungo dimenticato o temuto: l’ascoltare (o, più generale, il sentire che non coinvolge solo il senso dell’udito). Si tratta di dilatare l’intelligenza affinandone la capacità di comprensione, rendendola più duttile, tale da cogliere più profondamente i nessi che attraversano il reale, le sfaccettature e le implicazioni di senso dei vissuti.
Non è un discorso teorico e fuori del mondo, se pensiamo al dramma che da mesi si sta consumando in Medio Oriente, al cuore della regione mediterranea. Siamo di fronte ad una totale “disumanizzazione del nemico” che aumenta, per entrambe le parti in conflitto, la tollerabilità della sua morte: una disumanizzazione che rende moralmente sopportabili anche i crimini di guerra, talvolta ammantati di legittima difesa che, in realtà, appare molto più come uno sproporzionato “diritto alla vendetta”. In un tale contesto, i credenti delle fedi abramitiche sono chiamati ad uscire dal branco, per testimoniare di una forza che non si confonde con la potenza, di un essere veritieri senza essere fanatici. In credenti sono chiamati ad avere un senso per la rettitudine senza essere moralisti, ad essere uno, ma non senza l’altro. Insomma, nella complessità del nostro tempo, rifiutare la troppo banale logica binaria che separa affrettatamente i buoni e i cattivi, alimentando la macchina di quella “guerra mondiale combattuta a pezzi” come l’ha definita papa Francesco. Certo, superare la volgare polarizzazione che alimenta la logica del nemico, è solo un primo passo, perché una tollerante giustapposizione di diversità non può essere considerata il vero punto di arrivo. La Gerusalemme escatologica di tutte le fedi è una meta ben più ambiziosa, non la semplice giustapposizione di credenti chiusi in piccoli spazi blindati e non comunicanti!