Riflessioni in onore di Mawlana Rumi

Il ricordo di Rumi nella Siria ottomana: sogni e canti di ‘Abd al-Ghanī al-Nābulusī

28/01/2021 / Samuela Pagani

L’invito alla “Notte del Fidanzamento” – anzi, “delle Nozze” – mi è sembrato così irresistibile che l’ho accettato con gioia anche se mi sapevo impreparata. Il tema del titolo è il modo che ho trovato per unirmi, da profana, per via traversa, ai festeggiamenti. Sugli scritti di Nābulusī su Rūmī e sulle sue relazioni con la Mawlawiyya ha scritto con competenza Ahmad Sukkar(1). Da parte mia, per celebrare la ricorrenza, vorrei offrire la traduzione di alcuni passi che testimoniano dell’intimità e della profondità del legame personale di Nābulusī con Rūmī, e anche di un certo modo di mantenere viva la memoria di un poeta. Come ha scritto quarant’anni fa Alessandro Bausani:

Gli odierni ridicoli nazionalismi fanno sì che [Rūmī] sia conteso fra Afghanistan […], Iran […] e Turchia […]. La migliore risposta a queste sciocchezze la dà egli stesso con questo bel verso:
Dopo la morte, non cercare la tomba mia nella terra: nel petto degli uomini santi è il sepolcro mio!(2)

Preparandomi per questo incontro riflettevo su certe analogie fra l’anniversario di Rūmī e la Lectura Dantis. In entrambi i casi, il rapporto con la memoria del poeta assume una dimensione rituale: una celebrazione annuale che tiene insieme esegesi e recitazione, l’aspetto “intellettuale” e l’aspetto “sensibile” della poesia, la sua fruizione individuale e quella collettiva, e crea un senso di comunità che trascende le identità politiche (in fondo anche Dante, prima dell’unità d’Italia, era un poeta sovranazionale), ma può anche fare immaginare nuove comunità, come abbiamo sentito nell’intervento di Muddaththir Gualini (a proposito del Pakistan) e in quelli di Luan Strinic e Ahmed Tabakovic (a proposito della Bosnia). E’ vero che Dante non è un “santo”, però è importantissimo anche in lui, come in Rūmī, il nesso fra poesia e profezia. Questo nesso ha a che fare allo stesso tempo con l’uso della lingua, vale a dire la facoltà di trasformare i concetti in immagini “vive” e “reali”, e di vedere al di là del sensibile, e con la “missione” pubblica del poeta, direi anche con la sua funzione “civile”, malgrado il fatto che la città può anche essere un “non-dove”, come abbiamo sentito nell’intervento di Yahya Pallavicini.

Il poeta e teologo siriano ‘Abd al-Ghanī al-Nābulusī era particolarmente interessato al nesso fra poesia e profezia. Vissuto a Damasco fra il 1641 e il 1731 (1050-1143 del calendario islamico), quando la Siria era parte dell’Impero ottomano, Nābulusī ha riflettuto su questo tema sia parlando della propria poesia, sia commentando tre poeti: due “arabi” (Ibn ‘Arabī e Ibn al-Fārid) e un “non-arabo”: appunto, Jalāl al-Dīn Rūmī. In un testo scritto per festeggiare la nascita del Profeta, Nābulusī dice che la “luce di Muhammad” (nūr muhammadī) è la fonte inesauribile da cui è sgorgata, dopo il Corano, una lunga serie di libri, in cima ai quali ricorda le Illuminazioni meccane di Ibn ‘Arabī, il Mathnawī di Rūmī(3). L’arabo, secondo Nābulusī, è stato da sempre la lingua “interiore” (bātin) della rivelazione, che si è poi esteriorizzata con l’avvento di Muhammad, il Profeta della compassione (rahma(4)). Perciò, chi conosce le regole della grammatica ma è “straniero di cuore” (a‘jamī al-qalb) non può comprendere la rivelazione(5). D’altra parte, commentando il detto di un santo ammirato da Rūmī (“ieri sera mi sono addormentato curdo, e stamattina mi sono svegliato arabo”), Nābulusī spiega che questo santo illetterato che sapeva parlare solo nel suo dialetto era “curdo nel corpo” ma “arabo nello spirito”.(6)

Nābulusī chiama Rūmī “interprete”, o “traduttore”, della “presenza divina” (tarjumān al-hadra al-ilāhiyya), introducendo una sua poesia in onore del Mathnawī, da cui traduco qualche verso:(7)
Grazie al libro al-Mathnawī bello e buono è l’esistere, e doni e favori [divini] si avvicendano senza sosta.
Bi-kitāb al-Mathnawī ṭāba l-wujūd – wa-tawālā kull in‘ām wa jūd

Grazie a lui il Vero è diventato manifesto, le regole e i limiti [della Legge] si sono chiariti.
ẓahara l-ḥaqq bihi wa-ittaḍaḥat – sâ’iru l-aḥkām fīnā wa-l-ḥudūd

Ha portato un tempo limpido nel giardino della religione, lasciando apparire il segreto dell’inchino e della prosternazione.
Wa-riyāḍ al-dīn qad rāqa bihi – wa-badā sirr rukū‘ wa-sujūd

La rivelazione stessa di Dio, nella sua ispirazione, libera l’assoluto da ogni vincolo.
Fa-huwa waḥyu llāh fī ilhāmihi - yukhriju l-muṭlaq min kull al-quyūd

E’ la luce di Dio, manifesta in noi, che disperde le tenebre da questa esistenza.
Wa-huwa nūr Allāh fīnā ẓāhir – yudhhibu l-ẓulma min hādhā l-wujūd

E’ il Corano che unisce e il Corano che discrimina, per chi conosce Dio, alla faccia dell’invidioso.
Wa-huwa l-Qur’ān wa-l-Furqān li-man – ‘arafa Allāh raghma l-ḥasūd

Nessuno ne intende il valore, tranne il coraggioso, il cui spirito risplende da sotto la pelle.
Laysa yadrī qadrahu ghayr fatan - rūḥuhu tushriq min taḥti l-julūd

L’armonia dei suoi versi è un chiarore lunare in notti che per l’ignorante sono nere.
Wa-niẓām ka-l-ḍiyā’ min qamar – fī layālin hunna bi-l-jāhil sūd.

Con questa poesia Nābulusī conclude il suo commento sulle brevi introduzioni in arabo che Rūmī ha composto per tre libri del Mathnawī. Nābulusī si sofferma qui sul senso letterale, in arabo, della parola mathnawī, che in persiano ha il significato tecnico di poema in rima baciata. La sua spiegazione sottolinea il nesso fra la lingua del poema, la lingua del Corano, e la natura stessa della realtà:

Ogni cosa ha un lato apparente (ẓāhir), contiguo alla creazione (mimmā yalī l-khalq), e un lato nascosto (bāṭin), contiguo alla realtà divina (mimmā yalī l-ḥaqq), ha un “regno” [sensibile] e un “regno” soprasensibile (lahu mulk wa malakūt); insomma, ogni cosa è due cose (fa-kull shay’ shay’ayn), è in coppia (mathnā mathnā), e tutto l’universo è doppio, è un mathnawī (wa jamī‘ al-wujūd mathnawī). Dice l’Altissimo: “Sette Ripetuti (mathānī) ti demmo e la Sublime Lettura (al-qur’ān al-‘aẓīm)” (Q 15:87): [i “Ripetuti”] sono sette āyāt, da intendere nel senso dei “segni” (‘alāmāt) che guidano verso Dio, significandolo (dāllāt ‘alā l-ḥaqq): e questi sono le cose udibili, visibili, odorabili, gustabili, tangibili, e gli intelligibili evidenti e dedotti per ragionamento (al-masmū‘āt wa-l-mubṣarāt wa-l-mashmūmāt wa-l-madhūqāt wa-l-malmūsāt wa-l-ma‘qūlāt al-badīhiyya wa l-ma‘qūlāt al-naẓariyya). Queste cose costituiscono tutto l’esistente che Dio ha portato all’esistenza (wa-hiya l-wujūd kulluhu min haythu l-ījād). E tutto questo è [allo stesso tempo] una Scienza [divina che sussiste] nell’Essenza (wa l-kull ‘ilm bi-l-dhāt), la quale è la “Sublime Lettura” (wa-hiya al-qur’ān al-‘aẓīm). Le cose sono “doppie” perché scendono due volte: dall’Essenza alla Scienza e dalla Scienza all’esistenza concreta (wa-kawnuhā mathānī li-nuzūlihā marratayn min al-dhāt ilā l-‘ilm wa-min al-‘ilm ilā l-‘ayn)(8).

Il Mathnawī stesso, come Rūmī dice nell’introduzione in arabo al poema, è una “discesa” (tanzīl). Nābulusī commenta questo termine dicendo che è una “discesa sul cuore dell’erede di Muhammad, attraverso una rivelazione in forma di ispirazione (waḥy ilhāmī(9))”. La “discesa” della parola di Dio sul cuore dei santi è secondo Nābulusī ininterrotta così come ininterrotta è la manifestazione di Dio attraverso i “segni” della creazione.(10)

La parola poetica autentica, come la parola profetica, traduce in linguaggio umano una realtà che è al di là del linguaggio. Dio si serve dei profeti, così come dei santi, per istruire gli uomini nella lingua che possono comprendere. Rūmī illustra questo punto con la parabola dell’ammaestratore di uccelli, che insegna a parlare al pappagallo nascondendosi dietro uno specchio, per fargli credere che le parole siano pronunciate da un essere simile a lui:

A parrot sees its reflexion (image) facing it in the mirror.
The teacher is concealed behind the mirror: that sweet-tongued well-instructed man is talking.
The little parrot thinks that these words uttered in low tones are spoken by the parrot in the mirror.
Therefore it learns (human) speech from one of its own kind, being unaware of the cunning of that old wolf.
He is teaching it behind the mirror; otherwise (it would not talk, for) it does not learn except from its congeners.(11)

Si può notare che sia questa parabola, sia il concetto che esprime, si trovano in Efrem il Siro, poeta-teologo del IV secolo:

Colui che insegna – a parlare a un uccello
dietro a uno specchio – si nasconde e gli insegna:
quando [l’uccello] si volta – verso la voce di colui che parla,
di fronte ai suoi occhi il proprio sembiante – esso trova;
pensa che sia un suo simile – a parlare con lui.
Colloca il sembiante [dell’uccello] davanti a sé,
– in modo che esso, parlando con lui, impari.
Quest’uccello – è una creatura affine all’uomo,
ma malgrado vi sia affinità, – [l’uomo] cose estranee
[all’uccello]
in tal modo insegna, ingannandolo, – parlandogli
per mezzo di se stesso.
L’Essere [divino], che in tutte le cose al di sopra
di tutte le cose – è esaltato
nel suo amore, ha abbassato la propria altezza, – acquisendo
da noi i nostri modi:
ha faticato con ogni mezzo – per riportare tutto a sé.(12)

In Efrem, come nei poeti mistici musulmani, l’idea che Dio si rivela indirettamente, metaforicamente, sia nella Scrittura sia nella natura, serve a risolvere la contraddizione fra trascendenza e immanenza di Dio,(13) e comporta, allo stesso tempo, l’attribuzione di uno straordinario valore alla poesia, come mezzo per rendere trasparente la realtà, e come strumento per celebrare Dio, celebrando allo stesso tempo la bellezza naturale, il mondo sensibile.

Nābulusī ha scritto il suo commento sulla introduzione araba del Mathnawī, su richiesta di un derviscio mevlevi,(14) nel 1088/1677. Allo stesso anno risale un trattato molto combattivo in difesa del samā‘, il concerto sufi,(15) e al 1096/1684 un altro trattato polemico dedicato specificamente alla difesa del samā‘ praticato dai mevlevi di Damasco.(16) Nell’Impero ottomano di quel tempo, il samā‘ era oggetto di aspre controversie, riflesso delle tensioni fra diverse interpretazioni dell’Islam. Per quasi un ventennio, fra il 1077/1666 e il 1095/1684, cioè proprio negli anni in cui Nābulusī scrive i suoi testi, era stato proibito dallo Shaykh al-Islām, la più alta autorità religiosa dell’Impero.
La Samakhana della Mawlawiyya del Cairo, una straordinaria struttura circolare in legno, costruita nel Settecento e restaurata negli anni’80 su iniziativa dell’architetto Giuseppe Fanfoni, è un esempio tangibile dell’importanza della presenza della Mawlawiyya nelle grandi città arabe nel periodo ottomano.

IMG

Nei due passi seguenti, tratti dalla biografia di Nābulusī, le controversie politico-ideologiche intorno al samā‘ sono ben visibili sullo sfondo. I due passi però sono soprattutto una viva testimonianza del legame personale di Nābulusī con Rūmī.
Nel primo leggiamo:

[Capitò un giorno che alla fine di una lezione con un allievo su un testo elementare di teologia] un uomo con un flauto (nāy) entrò dal maestro, si sedette accanto a lui e si mise a suonare, mentre il maestro lo ascoltava. L’allievo si disse fra sé: “Il maestro a quanto pare è un adepto della tarīqa Mawlawiyya, tanto da permettersi di ascoltare il flauto!” Quando quell’uomo finì di suonare, baciò la mano del maestro e se ne andò, il maestro si rivolse all’allievo e gli disse: “Signor Mustafā, ci accadde una volta, quando andammo nel paese dei Rūm e giungemmo a Konya, di formulare il proposito di visitare Mawlānā Jalāl al-Dīn al-Rūmī, il fondatore della tarīqa Mawlawiyya, dicendoci fra noi: Se accetta la nostra visita, troveremo aperta la porta del mausoleo. Quando arrivammo davanti alla porta della tomba, la trovammo sbarrata. Ma proprio al momento del nostro arrivo il catenaccio cadde e la porta si aprì. Entrammo e ci fermammo a recitare la Fātiḥa, finché percepimmo la presenza spirituale (rūḥāniyya) di Mawlānā Jalāl al-Dīn nella forma di un grande uccello bianco che stava posato in cima alla tomba. Quando ci vide, si rimpicciolì poco a poco, fino a diventare come il più piccolo degli uccellini. Allora aprimmo la bocca per accoglierlo, lui vi entrò, e lo ingoiammo”. L’allievo fu sconvolto dal racconto, si riempì di timore e gli si accapponò la pelle, quindi si gettò a baciare mani e piedi del maestro e se ne andò. Fino a quel giorno, il maestro gli aveva tenuto soltanto discorsi strettamente limitati a stabilire il senso esatto dei testi.(17)

Questo stesso ricordo è rivissuto e formulato con altre parole nel secondo passo, un racconto in prima persona tratto dal diario di sogni di Nābulusī, con cui concludo la mia presentazione:

Sogno n. 7, in cui si trova un segno dell’autenticità dello stato spirituale suscitato dalla rotazione e dalla danza, e dell’esibizione sincera dell’estasi (mubashshira fīhā ishāra ilā ṣiḥḥat ḥāl al-dawarān wa al-raqṣ wa al-tawājud bi-l-ṣidq)
La notte di domenica 24 Rabī‘ al-Awwal 1089 [16 maggio 1678], ho sognato, poco prima dell’alba, che camminavo davanti a un gruppo di compagni e fratelli, finché raggiunsi la zāwiya del Mullā Jalāl al-Dīn al-Rūmī, famoso come Mullā Khunkār, nella ben protetta città di Konya. Arrivai primo, da solo. Mi fermai in un angolo della zāwiya, poggiando il fianco sinistro sul bordo di un muro, e fui preso da un sentimento di profonda umiltà (khushū‘), mentre davanti a me c’erano gruppi di persone che non conoscevo, numerose, sedute in vari punti. Fissai su di loro il mio sguardo, e il mio stato di umiltà si trasmise anche a loro. Poi affrettai il passo lungo la via che conduce dalla zāwiya alla tomba di Mullā Khunkār – che Dio santifichi il suo segreto! – con l’intenzione di visitarla. Tra me e me mi dicevo: questa è la porta del sito della tomba, chiusa e serrata dall’interno. Se lo Shaykh ti accetta, ti aprirà. Quando fui di fronte alla porta, questa subito si aprì: Mullā Khunkār – che Dio santifichi il suo segreto! – la stava aprendo dall’interno. Era una porta a due ante. Le aprì entrambe. Guardai: ecco lo Shaykh – che Dio santifichi il suo segreto! – spirito libero dalla corporeità. Mi abbracciò, svanì in me, svanii in lui (ghāba fiyya wa-ghibtu fīhi). Da quel momento, non ebbi più percezione di lui (lam ajid-hu). Ma mi accorsi della presenza (wajadtu) di uomini – una moltitudine – che rendevano visibile il desiderio dell’incontro (yatawājadūn) [col loro movimento circolare], e girai con loro, danzando alla loro danza come uno di loro. Poi mi svegliai, felice di questo. Sia lodato Dio.(18)

Puoi annullare l'iscrizione in ogni momento cliccando il link in calce alle email. Per informazioni relative alla gestione della privacy ti invitiamo a consultare la nostra Privacy Policy