Commento all’Enciclica Fratelli Tutti

Per una fratellanza religiosa e sovrumana

Una chiave di lettura islamica dell’enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco

07/04/2021 / Yahya Pallavicini e Abd al-Haqq Ismail Guiderdoni

Fratellanza evoca una familiarità, una intimità, una unione tra due o più esseri umani in virtù di una origine comune che precede e che determina l’esistenza di fratelli e sorelle, una origine che può essere rappresentata dall’amore degli stessi genitori, oppure dall’appartenenza di alcune persone alla stessa comunità religiosa o dall’obbedienza ad una “confraternita” contemplativa, in virtù di una chiamata o di una vocazione che segue una determinata regola autorizzata.

Si può essere fratelli perché figli di una stessa famiglia come Abele e Caino o Ismaele e Isacco o Mosè e Aronne e interpretare questa fratellanza con un fratricidio oppure con una nobile discendenza e con una complementarità nella missione di testimonianza e adorazione del Dio Unico.

La lettera enciclica di Papa Francesco “Fratelli tutti” e anche il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune (Abu Dhabi, 2019) condanna chiaramente ogni fratricidio e violenza, odio e ingiustizia sociale, soprattutto in nome del pretesto di una ragione o di una giustificazione religiosa. Escludiamo dunque il modello Abele e Caino nel quale la virtù del primo provoca la gelosia del secondo che degenera in un istinto di prevaricazione sanguinaria.

I due figli del patriarca del monoteismo di Abramo, Ismaele e Isacco, hanno due percorsi quasi paralleli che sembrano non incontrarsi mai: ognuno è figlio rispettivamente di Agar e di Sarah e del padre e profeta Abramo che sembra l’unico punto di incontro tra i due fratelli. Eppure entrambi, alla morte del padre e dopo averlo sepolto insieme, ereditano la sua funzione di ritrasmissione del culto sincero al Dio Unico ed entrambi genereranno una benedetta discendenza di credenti fedeli all’insegnamento dei profeti pur manifestandosi, nel corso dei secoli della storia, episodi di violenza fratricida, disordine civile e corruzione politica. Si tratta di disordini sacrileghi proprio perché misconoscono il carattere sacro della vita umana ma anche della fedeltà profetica.

La dottrina islamica descrive Mosè e Aronne entrambi come profeti, vale a dire come eletti al servizio di guida del popolo a reagire alla dimenticanza dell’ordine e della identità di Dio. Mosè ha anche la funzione di ritrasmissione di un messaggio, di una Rivelazione, di una Legge sacra, al suo popolo. Suo fratello Aronne non ha questa funzione ma ha il dono di sostenere la missione del fratello con la qualità della comunicazione, del linguaggio, della parola, sia nei confronti di Faraone che nei confronti del proprio popolo, sia per mediare contro l’arroganza del re d’Egitto che per calmare gli animi impazienti degli ebrei prima di raggiungere la Terra promessa. Il nuovo ciclo per questa comunità religiosa avrà inizio grazie al concorso asimmetrico dei due fratelli profeti.
Questa fratellanza nella profezia, interpretata in modo illuminato da Mosè e Aronne, è un insegnamento per i fedeli musulmani a riconoscere l’unità della profezia e della fratellanza nella complessa articolazione e nelle differenze di ruoli da seguire.

La storia della civiltà islamica conferma queste complementarità anche tra i due fratelli della famiglia al-Ghazali, Abu Hamid Muhammad e Ahmad: il primo diventa un maestro spirituale dopo un percorso come sapiente, filosofo e teologo, mentre l’altro fratello resta concentrato e ritirato come asceta e mistico. Se al primo fratello Abu Hamid Muhammad al-Ghazali viene riconosciuta la funzione, di chiarimento ortodosso e rinnovamento dottrinale, sia giuridica che di orientamento spirituale per tutta la comunità musulmana, del secondo fratello possiamo solo rispettare la grande devozione religiosa e la concentrazione interiore. Eppure, come negare il concorso delle qualità di entrambi i fratelli per una comune illuminazione? Si faccia attenzione a non cadere nell’errore di esaltare un fratello in virtù della sua fama o di idealizzare l’altro fratello per una presunta affinità elettiva.

Tutto questo ci porta a commentare l’enciclica “Fratelli tutti” proponendo anche il richiamo alla fratellanza sovrumana, sovrarazionale e spirituale che non si identifica solo, per riprendere l’esempio di prima, con il mistico Ahmad al-Ghazali, bensì con l’identità e l’unità della fratellanza religiosa. Si ricordi l’episodio narrato nel Sacro Corano sul profeta Aronne quando viene sgridato dal fratello Mosè perché perde la saggezza, per eccesso di comprensione e bontà nei confronti delle sofisticazioni del suo popolo. Poco dopo la fuga dall’Egitto, il popolo si manifesta ingrato di essere stato liberato dal politeismo e dalla tirannia del Faraone e insensibile alla portata sovrannaturale del colloquio miracoloso e provvidenziale tra Dio e il Suo profeta Mosè, e Aronne non riesce a prevenire la riesumazione di una nuova forma di idolatria.

Rispettare la fratellanza non significa, infatti, difendere per partito preso Caino, o giustificare l’invida dei fratelli del profeta Giuseppe che mettono in scena la sua morte, facendo diventare cieco di dolore il padre profeta Giacobbe, o esaltare le qualità di comprensione e di comunicazione di Aronne, o rivaleggiare nel primato della promessa e del sacrificio, da associare a Ismaele o Isacco.

Rispettare la fratellanza non potrà mai essere fatto se si ostenta l’apologia di una debolezza e, per errata compensazione, si tende a ridimensionare e relativizzare la forza di fede di un altro fratello.
Se così fosse, questa “compensazione”, in realtà, inficerebbe la fratellanza, a discapito della sua identità sacrale e dell’Ordine di Dio, per promuovere una comunione “fraterna” priva del riferimento alla tradizione della profezia, senza amore per il padre e per la natura e la finalità della religione.
Per questo, il nostro commento al titolo e al tema dell’enciclica di Papa Francesco non può che partire dal rispetto di una fratellanza religiosa che accomuni “tutte” le creature e “tutti” i credenti che si riconoscono come fedeli di una comunità specifica e di una precisa dottrina, senza che questa appartenenza e fratellanza religiosa possa dare mai adito ad un miscuglio, ad una confusione, ad un sincretismo, ad una omologazione artificiale. Per salvaguardare le provvidenziali identità delle differenti vie e comunità religiose non possiamo, infatti, interpretare il termine fratellanza solamente come sinonimo di pari opportunità sociale e sentimento di non belligeranza. Per queste ultime finalità bastano le filosofie moderne, le terapie psicoanalitiche e le ideologie dei sistemi politici e culturali occidentali, dalla Rivoluzione francese alla Dichiarazione universale dei diritti umani. Mentre la prospettiva e l’orientamento delle religioni nella vita dell’uomo e della donna sono ben altra cosa!

«È fondamentale ricordare che la fratellanza “generale” tra esseri umani si fonda su un insegnamento inerente sia alla rivelazione islamica sia a quella cristiana; questo livello di fratellanza non annulla in nessun modo la fratellanza specifica, ma ne è piuttosto una conseguenza. Essere “fratelli in Cristo” o “compagni al Profeta” non implica che ci debba essere ostilità tra fratelli e compagni; anzi, si potrebbe essere maggiormente fedeli ai rispettivi Maestri spirituali se si riuscisse a concepire la ricchezza delle forme che hanno ritrasmesso come mezzi per gareggiare nelle buone opere.
In tal modo potremmo realizzare una comprensione più profonda di quella Verità Assoluta, Metafisica e Unica che si fonda sul riconoscimento di una comune prospettiva religiosa e tensione interiore propria alle forme tradizionali tramite cui la Verità si manifesta, una tensione che non prevede alcun relativismo culturale, ma una misteriosa e pienamente benedetta partecipazione spirituale di ogni fedele alla propria specifica “grammatica religiosa” tramite la quale la Volontà e la Misericordia di Dio trasmettono i Suoi segni intelligibili in una sacra comunicazione. Tale mistero diventa ancor più inestimabile quando ogni credente riesce a rispettare anche nel fratello di un’altra cultura e religione la piena fedeltà alla sua differente e provvidenziale “grammatica”, riconoscendo in questo “pluralismo” i segni di una straordinaria Volontà e Misericordia del Dio Unico, abbandonando così ogni pretesa di esclusivismo apologetico e ripudiando l’arrogante misconoscimento di un’altra fede rivelata dallo Stesso Dio.
In effetti, non si tratta di intendere il pluralismo religioso come legittimazione di una “confusione delle lingue”, come quella sopraggiunta dopo il tentativo presuntuoso della torre di Babele, ma piuttosto di rispettare le differenze delle lingue, dei simboli, dei riti, delle dottrine e dei dogmi e, nello stesso tempo, riconoscere anche un linguaggio comune e intellettualmente superiore tra i credenti, sul quale basare un più profondo rispetto e una collaborazione tra fratelli nella contemplazione delle infinite articolazioni e declinazioni dell’espressione divina. Una più profonda comprensione di questo linguaggio superiore potrebbe condurre a un dialogo votato alla comprensione del Suo Monologo, ristabilendo la purezza dell’Intelletto nella semplicità della vita e nella complessità della storia.»(1)

Questa citazione dal Documento Una Fratellanza per la Conoscenza e la Cooperazione firmato da ventidue musulmani internazionali nel 2019 come commento e sostegno al documento presentato ad Abu Dhabi da Papa Francesco con lo shaykh al-Azhar imam Ahmad al-Tayyeb, era stata condivisa anche dal giovane shaykh Jawad al-Khoei, discendente della nobile scuola teologica di Najaf, e presente a Ur tra i rappresentanti religiosi invitati ad onorare la casa di Abramo con Papa Francesco nel suo recente pellegrinaggio in Iraq.

L’incontro a Najaf di Papa Francesco con l’autorevole maestro spirituale dell’Islam sciita AyatAllah ‘Ali al-Sistani ci ricorda l’altro incontro a Cuba, nel 2016, con il Patriarca Kirill della Chiesa Cristiana Ortodossa Russa e quello precedente a Gerusalemme, nel 2014, con il Patriarca Bartolomeo della Chiesa Cristiana Ortodossa di Costantinopoli. Da questi incontri ecumenici traspare un itinerario di “stazioni di fratellanza” religiosa, ecumenica e interreligiosa tra l’interpretazione cattolica e ortodossa del Cristianesimo e dell’Islam. Non ci sembra casuale che Papa Francesco, a Gerusalemme, lo stesso giorno dell’incontro con i due rabbini d’Israele, sia stato accompagnato a visitare il mufti nella spianata delle due moschee dal principe della casa hashemita del regno di Giordania Ghazi bin Muhammad bin Talal, coordinatore dell’iniziativa dei 138 sapienti musulmani che si sono indirizzati alle autorità del Cristianesimo con il documento “Una Parola Comune tra noi e voi” nel 2007.

In quel documento venivano richiamati i comandamenti dell’Amore per Dio e l’amore per il prossimo con una rispettosa articolazione tra citazioni dei testi sacri, approfondimenti teologici e auspici di saggezza religiosa per una umanità migliore. La prospettiva che veniva orientata allora è stata quella della responsabilità delle autorità religiose di una alleanza che onorasse la preghiera per la Pace promossa ad Assisi nel 1986 da San Giovanni Paolo II, ma che si traducesse concretamente anche in opere per il Bene Comune e la cura della Casa Comune.

Se leggiamo il testo dell’Enciclica “Fratelli tutti” e i documenti delle dichiarazioni comuni di Gerusalemme, Cuba e Abu Dhabi possiamo senz’altro notare che il linguaggio di questi testi appare progressivamente meno aulico e meno teologico inducendo alcuni severi analisti cristiani a misconoscere l’autorevolezza del Papa per queste concessioni di fratellanza ad altri credenti e ad altre creature. Alcuni conservatori della dottrina cristiana criticano il Pontefice per aver volgarizzato la missione evangelica abdicando al suo servizio apostolico e per aver barattato il primato della Chiesa con la fratellanza universale; invece di conquistare i popoli con le crociate del Vangelo si è scelto di abbassare il profilo per trovare una convergenza che riduca la povertà, la guerra, l’ingiustizia e la diseguaglianza sociale.

La Rivelazione del Corano contiene vari passi nei quali si richiama il credente a reagire alle possibilità negative dell’uomo che ha la facoltà di corrompere la natura della Creazione e dell’umanità e spargere sangue, odio e violenza, tradendo miseramente il patto primordiale con il suo Signore. Si tratta, secondo alcuni esegeti musulmani, della “ragione” che giustificherebbe Iblis, Satana, nella sua disobbedienza a prosternarsi davanti al primo uomo, Adamo: come può un essere di “luce” inchinarsi davanti ad un essere di “fango”? Davvero Dio propone un tale controsenso? Da allora, l’umanità viene tentata nell’orgoglio di padroneggiare il mondo dimenticando o associandosi individualmente con il Signore dei mondi. A riconvertire i credenti alla “Vera Religione” Dio manda ciclicamente i Suoi profeti e messaggeri ed eredi.

Una tradizione islamica insegna che “I sapienti sono gli eredi dei profeti”. Occorre però fare attenzione a non pretendere di fare l’esame nozionistico di dati o di lingue tradizionali ai sapienti, come se il loro certificato di autenticità e di autorevolezza dovesse essere dimostrato dai canoni dell’ermeneutica moderna e non più dalla trasparenza ontologica nel servizio autorizzato di ritrasmissione della scienza sacra, di utilità eminentemente spirituale. Questa speculazione razionalista e psicologica sul metodo è stata l’errore costante negli oppositori di tutti i profeti comuni alla Bibbia e al Corano (ma anche nelle storie dei Veda, nelle Upanishad e nei Sutra dell’Induismo) e alcuni maestri raccomandano di fare attenzione alla inversione di questo errore nei “tempi della fine“ (o l’era oscura del Kali Yuga), nell’attesa delle Parusia, quando molti saranno indotti nella miopia e nella sordità a seguire l’anticristo confondendolo con il vero Cristo: “per ingannare, anche gli eletti, se ciò fosse possibile”(2).

Dunque, da un lato, le fonti tradizionali ci richiamano alla virtù degli eletti che superano la mistificazione della dottrina e, dall’altro lato, ci richiamano alla consapevolezza dei lati oscuri e perversi dell’anima nella decadenza dei tempi. Paradossale che alcuni cultori dei testi sacri sembrino disinteressarsi radicalmente a questi due aspetti operativi, l’elezione e la purificazione, manipolando la religione in un gioco di potere o in una morale umanitaria.

Nella ispirata consapevolezza di questa profonda crisi intellettuale, Papa Francesco incontra, (e) dialoga e testimonia con altre autorità spirituali, i due rabbini d’Israele, il Patriarca Bartolomeo e il Patriarca Kirill, l’imam al-Tayyeb e l’ayatAllah al-Sistani. Presenta una fratellanza integrale senza pretendere di rappresentarla in modo assoluto e tantomeno relativo, ma si apre al riconoscimento di una dignità sacrale che i suoi colleghi interpretano come autorevoli servitori dello Spirito e maestri di una benedetta espressione religiosa della stessa famiglia Cristiana o della stessa famiglia di Abramo. In subordine, c’è il rispetto delle giurisdizioni dottrinali e teologiche e le relative declinazioni temporali, nazionali e culturali. A queste “stazioni di fratellanza” vissute nel corso di otto anni di pontificato e di viaggi si accompagnano le tre lettere encicliche Lumen Fidei, Laudato si’, Fratelli tutti.

Per tornare all’ultima enciclica, non vediamo la ragione di criticare il linguaggio e la scelta dei temi che traggono ispirazione evidentemente da una priorità di economia spirituale che non può essere limitata solo ai rapporti sociali con i fratelli “altri” ma, soprattutto, è rivolta ai cristiani cattolici per realizzare una nuova conversione spirituale, per interpretare una fratellanza religiosa all’interno della propria comunità, purificata da “individualismi, materialismi, razionalismi e concupiscenza” per poi compartecipare di questa medesima fratellanza virtuosa anche con “tutti” i credenti e “tutti” i cittadini.

L’intuizione di Papa Francesco di suggerire come regola in una sua omelia che “nessuno si salva da solo” citando l’immagine di una barca nella quale siamo tutti costretti insieme ha, forse, il valore di una prova di umiltà per il popolo cristiano ma anche di una comune fratellanza tra “tutti” i credenti nel richiamo all’escatologia, al senso della fede e della vita, prima della morte. Non è forse anche questa immagine una prospettiva religiosa comune in tutte le dottrine? E allora, questa fratellanza, alla luce dei segni dei tempi, non può che essere un’alleanza religiosa e spirituale nella quale occorre che ogni credente si purifichi dei pesi e delle sovrastrutture che rischiano di far affondare la barca o escluderlo dall’Arca dei semi dei sette precetti Noachidi.
In quest'epoca di pandemia, ritornano alla mente scenari escatologici come il diluvio universale, al quale sopravvissero nella tradizione Abramica Noè e la sua discendenza: i fratelli Sem, Cam e Jafet, da cui discendiamo tutti, come attraverso di loro tutti discendiamo dal progenitore Adamo. In tutte le civiltà tradizionali, infatti, non solo in quella Abramica, l'etnologia sacra riconosce la comune discendenza dall'unico progenitore di tutti gli uomini, pur attribuendo a lui nomi diversi, e pur riconoscendo in questi ultimi diversi gradi di fedeltà, nel corso della storia dell'umanità, al loro unico Creatore Celeste, e alla Sua Volontà.

Il Patto tra Dio e l’uomo è il fulcro di questa Arca dell’Alleanza che deve essere abitata da custodi della Tradizione che siano leali al sacro, sensibili all’azione della Metafisica, alla trascendenza e all’immanenza di Dio.
Certo è una fratellanza sovrumana, sovrannaturale e sovrarazionale perché è religiosa e dunque sacrale e assume, alla fine dei tempi, un carattere che ricorda davvero la migrazione, la liberazione, l’illuminazione, l’elevazione e l’estinzione nella soddisfazione del gusto della presenza di Dio.
Ecco perché la ricerca di una elezione e di una purificazione non può che essere trovata tra credenti osservanti che condividano un servizio umile e una contemplazione sincera. Questi ultimi termini, contemplazione e servizio, svolgono il ruolo di sostegno e protezione del percorso per stazioni di svelamento della fratellanza nella vita tradizionale, nella comunità e nel mondo, in attesa del ritorno al Principio.

Non è forse questo l’insegnamento universale di Gesù figlio di Maria raccolto dai santi?

Gli ordini contemplativi, anche nella storia della civiltà islamica, hanno contribuito a custodire e ritrasmettere il rinnovamento intellettuale di una regola di sostegno e protezione spirituale per coltivare la Via della Conoscenza di Dio. E questa elezione non potrà compiersi se non si pone un argine, anche sul piano esteriore, alla follia dilagante del politeismo e delle idolatrie dove ognuno invoca e crede alla propria costruzione mentale ed emotiva della divinità.
Siamo convinti anche noi, come scrive Papa Francesco nella sua lettera enciclica, che “La verità è una compagna inseparabile della giustizia e della misericordia (227)”.

Dio è unico e lo stesso per tutti, ma le religioni sono differenti. Se veramente ci facciamo di Dio “la concezione più elevata possibile”(3), evitando di confinarlo in una qualsiasi idea, possiamo accettare che la Sua rivelazione sia inesauribile. Così i musulmani trovano nel Corano l’insegnamento che il messaggio di Dio all’umanità è sempre lo stesso, ma Si riveste di differenti forme per adattarsi alle caratteristiche dei popoli cui si rivolge. Queste differenze sono dunque provvidenziali, poiché permettono di cogliere un messaggio metafisico universale in forme dottrinali e rituali specifiche e adattate(4). L’origine di questa diversità ci sfugge e non potrà risolversi che in Dio(5). Non può esserci “soluzione razionale” alle apparenti incongruenze tra i dogmi e i riti appartenenti al Cristianesimo e all’Islam. In attesa (di tornare a Dio) siamo invitati a gareggiare nelle buone opere!

Il Profeta Muhammad ha detto: “Io sono più di chiunque altro vicino a Gesù in questo basso mondo e nell’Aldilà. Non c’è alcun profeta fra me e lui. I profeti sono come fratellastri. Le loro madri sono differenti ma la loro religione è unica.”

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