Commento all’Enciclica Fratelli Tutti

La sacralità delle comunità religiose

02/02/2021 / Mulayka Enriello Croce e Yusuf Abd al-Hadi Dispoto

Nella Risalat al-Huquq (la “Lettera dei Diritti”) dell’Imam ‘Ali Zayn al-Abidin, quarto Imam della tradizione sciita, leggiamo, come cinquantesimo e ultimo, il “Diritto delle minoranze religiose”, così formulato:

Il diritto delle minoranze religiose sotto la protezione dell’Islam è che tu accetti per loro ciò che Allah ha decretato e che tu rispetti il patto e la protezione che Allah ha messo in atto verso di loro, e che tu affidi loro ad Allah in quello che chiedono da se stessi e in quello che sono tenuti a fare, e che tu governi nelle faccende che avete in comune secondo le indicazioni che Allah ha imposto su di te. Interponi tra te e l’oppressione su di loro il rispetto e il diritto di protezione che Allah ha accordato loro, e la fedeltà nei patti di Allah e del Profeta, che la pace sia su di lui e la sua famiglia, perché ci è giunto detto che il Profeta ha detto: “Io diverrò avversario di colui che viola un patto”. Abbi timore di Allah, e non vi è potenza che in Allah.(1)

Alla luce di queste parole, le quali non fanno altro che ribadire la prospettiva tradizionale dell’Islam rispetto alle minoranze religiose presenti nella propria giurisdizione, vorremmo anche noi commentare alcuni aspetti della recente enciclica “Fratelli Tutti” di papa Francesco, la quale, seppure su un piano prevalentemente sociale, si apre se non altro a considerare, anche da parte cristiana, una declinazione di questa necessità di riconoscimento universale del “diritto divino” relativo alle diverse comunità religiose che oggi trascendono i confini nazionali.

Trascorso un anno dalle celebrazioni dell’incontro fra San Francesco d’Assisi e il Sultano Al-Malik al-Kamil, segnato da molte celebrazioni e spiragli di apertura verso un dialogo interreligioso all’altezza di tali figure d’eccezione nelle storie delle due rispettive Tradizioni, l’enciclica “Fratelli Tutti” rappresenta una sollecitazione utile a fare il punto sulle esigenze spirituali del mondo contemporaneo, tenendo conto del crescente dominio della comunicazione virtuale che sta alterando in modo sempre più irreversibile la percezione del nostro “essere umani”: “Prigionieri della virtualità, abbiamo perso il gusto e il sapore della realtà”, dice l’enciclica(2).

La paventata “società liquida” di Bauman è stata ormai superata, in vista di una società “eterea” – dove il concetto di etere si avvia ad essere riesumato persino nelle scienze fisiche e naturali che tanto lo hanno combattuto, in passato, per potersi accreditare come “oggettive”. La fisica cerca in questo modo di rivestirsi di una nuova valenza cosmologica che ambirebbe a sostituire definitivamente il ruolo delle religioni, complice una “nuova ondata” di sincretismi dialettici che mirano a fare della diversità religiosa niente di più che un variopinto arcobaleno di colori da apporre su un’unica sostanza comune: quella del benessere materiale e delle pur legittime, ma relative e contingenti, istanze di declinazione sociale di un cosiddetto “nuovo umanesimo”.

Oggigiorno la cura dell’ambiente, o della persona, o delle società, vengono attribuite all’uomo religioso, o alle comunità religiose, senza che all’origine vi sia più un riconoscimento o un ricordo dell’archetipo da cui discendono tali doveri divini: la funzione di califfato(3) assegnata al primo uomo Adam (Adamo), che per noi musulmani è non soltanto primo uomo ma anche il primo Profeta nel presente ciclo della manifestazione.

È Adam l’archetipo dell’uomo in preghiera, dell’uomo prosternato in cerca del dialogo con il suo Creatore. È Adam il garante del patto (mithaq)(4) stretto da Allah con l’umanità intera all’inizio dei tempi. È ancora Adam il capostipite di una catena di ritrasmissione dell’autorizzazione profetica che tutti i testi sacri ricordano, e che con le molteplici ramificazioni di una umanità arrivata ormai al termine del suo sviluppo ciclico, ha dato luogo a rinnovati messaggi e Messaggeri per diversi popoli e nazioni.

Chiarire la differenza provvidenziale tra essere tutti figli di Adam e membri di una comunità specifica che ha ricevuto la Verità di una Rivelazione fa parte di ogni vera educazione religiosa.

La fratellanza “senza confini” e “senza barriere”, l’“amore” e l’“armonia” tra le genti sono richiamati dall’enciclica Fratelli Tutti soprattutto in vista di una applicazione all’esercizio di una carità materiale e concreta. Ma che ne è di quella “carità che ci dobbiamo gli uni gli altri” – come scriveva nell’ XI secolo il papa Gregorio VII all’Emiro di Béjaya alludendo alla necessità di un reciproco riconoscimento tra le comunità religiose figlie dello stesso Patriarca Abramo?(5)

“In effetti, non si tratta di intendere il pluralismo religioso come la legittimazione di una ”confusione delle lingue”, come quella sopraggiunta dopo la presunzione della torre di Babele, ma piuttosto di rispettare le differenze tra le lingue, i simboli, i riti, le dottrine e i dogmi e nello stesso tempo riconoscere anche un linguaggio comune e superiore tra i credenti, sul quale basare un più profondo rispetto e collaborazione tra fratelli nella contemplazione delle infinite articolazioni e declinazioni dell’espressione divina. Una più profonda comprensione di questo linguaggio superiore potrebbe condurre a un dialogo votato alla comprensione del Suo Monologo, ristabilendo la purezza dell’Intelletto nella semplicità della vita e nella complessità della storia.
Riteniamo altresì fondamentale non rinunciare all’oggettività, alla profondità, al discernimento e persino alla conoscenza in nome della fratellanza, che sia ora, agli inizi di questo grande dialogo fraterno, o in qualunque sua futura fase di sviluppo. Fratellanza non significa rinunciare al bene e al vero (che significherebbe compromettere il Principio), bensì imparare a collocare ogni cosa, compresa l’umanità, al giusto posto che compete a ciascuna.
Per riconoscere questa dinamica per cui ogni cosa si integra armoniosamente nell’Unità senza fare dell’Unità il prodotto della propria fantasia personale, è fondamentale saper prescindere dai condizionamenti di parte (apologetici, teologici o culturali) rispetto alle dottrine e ai simboli, alla storia e agli eventi attuali, belli o brutti che siano.(6)

Se un credente nell’Unico Dio dovesse riconoscere lo stesso Dio e la Sua Verità in un’altra religione sarebbe forse costretto a rinnegare la propria appartenenza e convertirsi? Il “diritto delle minoranze religiose” dal quale siamo partiti non avrebbe allora alcuna ragione d’essere stato posto a sigillo di una risala, di un legato di insegnamenti spirituali.

Come ci ha sollecitamente insegnato un Maestro autorizzato ad operare in Occidente, Shaykh ‘Abd al-Wahid Pallavicini (che Allah custodisca il suo segreto), l’unica vera conversione è quella volta a soggiogare la nostra anima in vista del ricordo di Dio, in qualunque forma regolare ed ortodossa Egli abbia stabilito che dobbiamo praticare la nostra fede.

La dottrina islamica ricorda in Adamo, primo Uomo e primo Profeta dell’umanità, il fulcro di una Chiamata al ricordo di Dio e alla sottomissione a Lui come Creatore dei Cieli e della Terra e come Signore di tutta l’Umanità. Di più ancora, il Corano ricorda come i Cieli e la Terra stessi siano oggetto della chiamata divina a ritornare a Lui “volenti o nolenti”. La cosa meravigliosa è che nella lettura islamica della realtà, Cieli e Terra rispondono al loro Creatore con la disposizione a ritornare a Lui “di buon grado”.

Lungi dal voler essere gli unici depositari della voce di Dio, noi musulmani siamo consapevoli di essere destinatari di un miracolo speciale: la nascita di un nuovo Profeta in tempi tanto vicini nella storia secolare da costringerci a mettere in dubbio che sia persino mai esistita un’epoca storica veramente e unicamente “secolare”, nel senso di essere svincolata da una presenza diretta e costante dell’Azione divina al di sopra delle vicende di questo mondo.

La dottrina islamica relativa all’Umanità nel suo essere oggetto unico del Pensiero divino, esistente in quanto “pensata” e non in quanto “pensante”, narra di una successione ininterrotta di Profeti che hanno di volta in volta vivificato la possibilità o meglio la necessità di una comunicazione tra l’Uomo e Dio.

Tale comunicazione e vivificazione è necessariamente plurale, come plurali sono le forme stesse dell’espressione religiosa all’interno di ogni singola Tradizione, poiché nessun popolo, nessun uomo e nessuna forma creata potrebbero esaurire la Scienza incommensurabile di Dio e l’espressione della Sua onnipotenza.

L’umanità contemporanea si è spinta oltre i confini imposti alla sua natura ed ha desiderato la conoscenza esaustiva delle cose di questo mondo, realizzando di volta in volta, invece dell’universalità l’universalismo, invece dell’unità archetipica del genere umano, la molteplicità di fantasmagorie e di stereotipi della globalizzazione, invece della convergenza verso l’unica fonte di tutte le dottrine religiose, la parodia di un sincretismo di buone intenzioni verso una custodia condivisa della Terra, senza mai più menzionare, per dimenticanza o per pudore, una sana intenzione di ascesi e di predominio del governo dei Cieli.

La sociologia e l’antropologia creano ritratti o caricature dei popoli e delle culture, teorizzandone l’uguaglianza di principio senza però riuscire ad afferrarne l’unità se non da un punto di vista biologico o pragmatico, mentre la geopolitica si prodiga alternativamente per suscitare, gestire e infine analizzare in tempo reale relazioni e conflitti tra i popoli e le culture, senza considerare la possibile via di uscita di una sospensione dei giochi in un richiamo collettivo al vero scopo della vita umana.

Un dialogo veramente “fraterno”, che nutra l’anima e lo spirito oltre che il corpo, è quello finalizzato a scoprire insieme la meravigliosa varietà della Sapienza divina nelle diverse forme provvidenziali della Sua Parola e della Sua Creazione, anche, perché no, attraverso la cura dei poveri come specchio e richiamo ad una nostra interiore e vera “povertà spirituale”.

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